Leicester. Vincere un trofeo per raccontarci un sogno

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L’essere umano è creatura fatta per ascoltare storie. Seppure le racconta, il suo raccontarle non sarà che un propagare ciò che ha ascoltato; semmai, con aggiunte e omissioni che daranno l’idea della creatività. Sta di fatto che anche quando scriviamo noi restiamo pur sempre dei lettori.

Questo non vuole essere un preambolo, ma l’essenza di ciò che, come tanti, ho vissuto con curiosità crescente, e quindi con trasporto e passione sino a un’immedesimazione imprevista, seguendo un campionato che, sia pure importante, in genere mi limito a sbirciare poiché laterale rispetto alla mia fede di tifoso monogamico; non quello, insomma, in cui gioca la mia squadra. Eppure, in questa sorta di libro sontuoso ma un po’ distante da me che è la Premier andava dipanandosi una storia che mi ha chiesto: “Ascoltami!”, e con cautela ho cominciato ad ascoltare.

Il primo a darmene segnale è stato Lele, mio figlio: “Papà, hai visto che sta facendo Ranieri? Te l’avevo detto io che è forte!”. Era ancora settembre e già sembrava stupefacente che in testa al campionato più ricco del mondo ci fosse una squadra appena scampata alla retrocessione.

“Ma  tanto, figurati, è roba di poco!”, si pensava. Bizzarrie di inizio stagione. Sin quando il miracolo di una salvezza ottenuta pochi mesi prima vincendo ben sette partite delle ultime nove ha iniziato a ingigantire oltremisura reclamando attenzione. Di settimana in settimana, la cautela si è dissolta lasciando il posto a una partecipazione che si è accompagnata via via al fluire dei miei giorni.

Se m’avessero chiesto nel corso dell’anno: “Stai leggendo qualcosa d’interessante?”, di slancio avrei potuto rispondere: “Sì! La storia del favoloso Leicester”.

Il Leicester City Football Club, che poco conoscevo e di cui ho iniziato voler sapere tutto con quella competenza del cuore riservata solo ai valori centrali della propria vita. E, come me, a migliaia, a decine di migliaia, in un’aggregazione progressiva e travolgente, siamo stati rapiti dalla trama di un best seller assoluto che, come ospiti impropri in casa altrui, ci ha reso tutti affini agli aventi diritto, vale a dire ai cittadini di Leicester, nessuno escluso, che quella maglia blu la tifano da sempre. Sono stati loro il cuore dell’evento, e la loro little town, nata come un sito fortificato per vigilare sulla navigazione del fiume Soar (prosa rubata a Wikipedia) e niente più (aggiunta mia), è stato lo scenario del romanzo che andavamo divorando.

Quale strano, intimo, suadente fanatismo ci ha conquistati uno ad uno, noi stuolo di lettori avvinti dallo stesso libro?

Pagina dopo pagina, partita dopo partita, abbiamo contribuito, tutti, a quel prodigioso fenomeno di mutazione che traduce ciò che è normale in mito. L’anagrafe di persone reali ha prodotto personaggi; una topografia consueta ha suggerito un habitat assoluto.

Se c’è dell’enfasi, me la godo. Lo spirito letterario ha senso se così, quando si mostra capace di mescolarsi a talune offerte della vita vera. E la vittoria del Leicester è una di queste offerte. Allora, in una festa dell’immaginazione che non si frena dal declinare in un gioioso delirio, penso a Leopold Bloom e alla sua Dublino, a Bernardino Soares e alla sua Lisbona, a Zanna Bianca e ai suoi ghiacci, a Ulisse e al suo Egeo, al giovane Holden e alla sua New York. E ognuno vi aggiunga i connubi evocati dai racconti che ha più amato e ripensi alla smania con cui ha voluto convincersi a tutti i costi che un certo balcone, che davvero esiste, sia davvero quello di Giulietta e del suo Romeo. E non c’è dubbio che Leicester esista per davvero, come per davvero esistono i suoi tifosi.

Tuttavia, da settembre a oggi, è come se noi, oltre a saperli, quei tifosi li avessimo anche immaginati. Come se, sollecitati da una scrittura ispirata, avessimo immaginato le prodigiose rimonte negli ultimi minuti, gli innumeri gol di Jamie Vardy, le parate del fantastico figlio di un fantastico padre fatte in ossequio a un nome, Schmeichel, che ormai è quello di un’intera specie; è come se avessimo immaginato i tocchi fatati di Mahrez, la possanza omerica di Morgan, la sapienza operaia del magnifico Kanté, la strafottenza da guappo orientale di Okazaki, l’efficienza micidiale di Ulloa.

E’ come se, sull’abbrivo di frasi perfette nel loro incalzare, avessimo immaginato Claudio Ranieri di Testaccio e il suo destino, e la sua impresa. Il suo essere ciò che ha fatto, e per cui tutto ciò che la sua vita è stata prima di questo, sembra che altro non sia stato se non attesa di questo.

Ranieri che induce Mourinho a dirgli bravo. Signori, in piedi!

Così, tutto il mondo si è fatto lettore diventando tifoso di una squadra che è come se avesse dato il proprio nome alla città di cui porta il nome.

Ma anche i personaggi si sono fatti lettori di se stessi. Uniti, coesi come nello spogliatoio, ma stavolta a casa di Vardy, manco fosse il più focoso dei pub, alle 21,00 di lunedì 2 maggio 2016, tutti insieme a vedere il Chelsea con la maglia blu come la loro, battersi in campo come fossero loro.

Il Leicester che guarda giocare il Leicester, e che lo vede vincere.

Il Leicester che gioca e che fa vincere il Leicester che guarda.

In certi casi si dice: “Non vogliamo regali da nessuno”. E quei ragazzi ci sono riusciti, non hanno avuto regali da nessuno. Se il Chelsea ha inchiodato il Tottenham sul due a due con un secondo tempo rovente, inimmaginabile, non è stato solo per la voglia famelica di conquistare un derby, quella forse non sarebbe bastata, ma perché in campo i giocatori di Guus Hiddink erano anche loro lettori, come noi, dello stesso libro. Un libro che a quel punto li contemplava come personaggi protagonisti.

Hazard, genio del calcio, ha segnato per il vanto di scrivere l’ultima frase, ma il punto finale no. Quello è nell’urlo twittato, postato, irradiato nel globo dai ragazzi di mister Ranieri (da Testaccio), poiché tutti i grandi romanzi, anche quando sembra che parlino d’altro, a questo mirano: al  prorompere impetuoso della giovinezza.

Giuseppe Manfridi

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