Donne che scrivono, donne scritte

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Il ‘900 porta alla ribalta in maniera affatto nuova la figura femminile che, dopo secoli di sottomissione sociale, intende affermare la sua parità con l’uomo e promuovere ogni forma di rivalutazione civile.

Nello sviluppo della società borghese, infatti, la donna  conquistava maggiori spazi  di autonomia nella vita privata  e aveva la possibilità di aprirsi alla grande esperienza della cultura: tra la fine dell’800 e i primi decenni del nuovo secolo sono tante le scrittrici, specie di aerea anglosassone, che non seguono semplicemente modelli maschili, ma propongono, a loro volta, modelli affatto nuovi, esprimendo in modo esplicito  la loro identità femminile con un linguaggio di notevole originalità. Virginia Woolf e le sue figure femminili costituiranno un’indicazione precisa, una specie di via programmatica per tutte le donne del nostro secolo, in quel necessario cambiamento che porterà, attraverso una maggiore scolarizzazione,  a una coscienza precisa del nuovo essere donna.

Pure in Italia, forse e soprattutto per la più lenta trasformazione della nostra società da agricola a industriale, il secolo s’apre con un modello letterario di tradizione saldamente in mano all’uomo-scrittore: la femme fatale, la donna fatale.

La donna fatale, apparentemente, domina il maschio succube, lei perversa, torturatrice, lussuriosa, lui, il poverino, fragile  e sottomesso: di simili eroine pullulano i romanzi  di D’Annunzio, una per tutti, la Elena Muti, del Piacere, che già nel nome rievoca la Elena di Troia e tutte le distruttrici per antonomasia. Anche la tipologia fisica è un po’ fissa: in pelliccia morbida, profumata, ingioiellata, mantenuta non si sa bene da chi, è il sogno erotico del maschio europeo d’inizio secolo e si moltiplica nelle figure di Salomé di Oscar Wilde, di Lulù di Wedekin, della, per l’appunto “Venere in pelliccia” di Masoch.

Di contro la nostra memoria contadina riporta con sottile ironia, immagini femminili  bruttarelle, ma buone, pulite, ma senza insinuanti profumi, meste e legate a valori eterni di verginità, fedeltà, casa, chiesa: così è la Signorina Felicita del poeta crepuscolare Guido Gozzano, , così la timida sorella sposata di Marino Moretti nella sua visita “A Cesena”.

Al confine tra mondo borghese e mondo agricolo di tradizione le figure femminili di Luigi Pirandello, dalle ragazzine sfortunate di “Pensaci Giacomino” alla tragedia della Esclusa, fino alla selvaggia volontà di libertà della figliastra nei “Sei personaggi in cerca d’autore”, ma con questo testo già abbiamo voltato pagina e le donne hanno preso il treno per l’Europa, sia pure ancora in braccio a spesso ingombranti scrittori uomini. E così  le tre sorelle   della “Coscienza di Zeno”, borghesi e  convenzionali, arroccate nel loro piccolissimo universo, tendono la mano all’Angiolina  di Senilità  che  diviene per Emilio Brentani, il protagonista  l’emblema del sole nascente, simbolo della  speranza di  rivolta  di tutti gli uomini, alla luce delle rinnovate idee socialiste. Pure accanto ad Angiolina, è Amalia che  lontana dalla figura di donna fatale, rappresenta l’ideale di donna-madre che tutto sacrifica di sè per nutrire l’universo degli altri.

Per Aldo Palazzeschi le figure femminili s’addensano nella memoria e prendono la connotazione delle “Sorelle Materassi”, innamorate del loro unico nipote che diventa, lui stavolta, una specie di uomo fatale che distrugge la loro serenità di cucitrici in bianco e il loro onesto e sudato patrimonio, la governante Niobe, svelta e procace contadina abituata a parlare di uomini e dei suoi amori passati con realismo spicciolo e divertente, ma è anche la Comare Coletta che “saltella e balletta” dopo aver passato al vita a guadagnarsi  in modo poco morale il pane, per racimolare qualche spicciolo all’angolo delle strade: “Ricordi, ricordi il tuo sozzo peccato?”

E il peccato con tutte e le sue implicazioni – senso dell’espiazione dalla colpa – è il condimento dei personaggi femminili descritti da una grande scrittrice di questo secolo, la sarda Grazia Deledda che mantiene saldo il principio per cui una donna è proprietà stabile e salda del clan di appartenenza,: così nascono figure indimenticabili come le sorelle di Canne al Vento, o Marianna Sirca,  o La madre, o Annalena Bilsini o Cosima.  Per tutte queste donne l’amore che dovrebbe rappresentare una via d’uscita diventa spesso fonte di dolore e di morte. Ma Grazia Deledda non è un uomo, è donna consapevole della situazione e desiderosa di cambiarla, tanto che, oltre al Nobel che le fu assegnato, la storia ricorda il suo impegno e le sue battaglie civili per la promozione della figura femminile.

Matilde Serao è già una femminista , anzitempo tempo, per la nostra Italia:  napoletana, giornalista, scrittrice disegna con tratto nuove figure femminili come  L’anima semplice, suor Giovanna della Croce.

Sempre legata al senso del peccato è la figura femminile descritta da Federigo Tozzi nel suo “Con gli occhi chiusi” : la Ghisola  è una contadina bella e selvaggia che ha in sè il peccato e la perdizione, il suo innamorato, infatti, pur volendo tenere gli occhi chiusi la scoprirà incinta in una casa di tolleranza.

Forse, il personaggio femminile che meglio descrive il mutamento di prospettiva nell’indagine sulla  donna  in questo secolo nella letteratura italiana è Sibilla Aleramo poetessa e narratrice che  visse con intensità il carattere specifico  della condizione femminile, impegnandosi  all’inizio del secolo in un’attività  femminista, ebbe amori  e amicizie con molti scrittori del tempo: la sua  “Una donna” scritto nel 1906 , seguito dall’altrettanto Autobiografico “Amo dunque  sono”, getta una luce nuova su una figura  di donna , la sua, generosa e viva contro tutte le sottomissioni, volute e patite, da generazioni di donne prima di lei.

Da un paragone con le scrittrici di lingua inglese, il numero e la qualità di quelle italiane risulta decisamente inferiore. Manca in Italia una ricca e solida tradizione di scrittura femminile alla quale rifarsi; mancano le Austen, le Brontë, le Eliot, le altre grandi voci di donna da cui trarre forza e non è altrettanto comune la presenza di un gran numero di donne che, fin dal secolo scorso e anche prima, hanno fatto della scrittura una professione. Per rintracciare una tradizione di scrittura femminile bisogna, per l’Italia, risalire più indietro nel tempo.

Nel Medioevo e nel Rinascimento le donne che scrivono sono relativamente abbondanti, anche se limitate a certe categorie privilegiate: le religiose, soprattutto nel Medioevo, e poi, nel Rinascimento, le aristocratiche da un lato e le cortigiane da un altro.

Per memorie e lettere di molte scrittrici mistiche, da Angela da Foligno a Caterina da Siena, si potrebbe in alcuni casi parlare di “scrittura creativa”. Le scrittrici del Rinascimento scrivono per lo più poesie e lettere (Gaspara Stampa, Veronica Franco, Veronica Gambara, Vittoria Colonna ecc.) ma anche opere che, inserendosi nel dibattito su “l’eccellenza delle donne”, lo fanno da un punto di vista proto-femminista: ne sono un esempio Il merito delle donne di Moderata Fonte e La nobiltà et eccellenza delle donne et i difetti e mancamenti degli huomini di Lucrezia Marinelli.

Come donna si esprime anche la “cortigiana onesta” Tullia d’Aragona nel suo Dialogo dell’infinità d’amore, mentre un esempio tra i tanti di donna che accetta pienamente i canoni maschili è Isabella Andreini. Dopo il Rinascimento, per le donne c’è sempre meno spazio: le ragazze che ricevono un’istruzione sono ancora meno che nei secoli precedenti, anche nelle classi agiate, e di conseguenza cala il numero delle opere pubblicate e conservate.

Tra i libri di memorie riproposti di recente ci sono (per il 1600) La semplicità ingannata e La tirannia paterna di Arcangela Tarabotti e (per il 1700) le Memorie dal chiostro di Enrichetta Caracciolo. Sempre nel Settecento non mancano poetesse, soprattutto nell’Arcadia, una di esse, Fidalma Partenide (Petronilla Paolini Massimi), è tra le poche a denunciare nelle sue opere la condizione delle donne. A differenza che in Francia, però, l’Illuminismo sembra aver illuminato poco la strada delle scrittrici italiane.

Per tutta la prima metà dell’Ottocento le donne che scrivono continuano ad appartenere ad una ristretta‚lite che ha la possibilità d’istruirsi grazie agli insegnamenti di padri, fratelli o precettori. Solo dopo l’unificazione verranno aperte, a partire dal 1870, scuole pubbliche anche per le bambine e le ragazze e perciò è verso la fine del secolo e gli inizi del successivo che finalmente molte donne incominciano a scrivere per professione. Alle poesie, alle lettere e ai diari che per quasi tutto l’Ottocento formano al produzione della maggior parte delle scrittrici (con l’eccezione dei resoconti di viaggi e degli scritti politici di qualche intellettuale come Cristina di Belgiojoso e Eleonora Fonseca Pimentel) si aggiungono i romanzi e gli articoli di giornale. Il romanzo, genere che per la sua novità e flessibilità è stato il più naturale sbocco per le scrittrici, diventa anche in Italia il settore privilegiato dalle donne che vogliono guadagnarsi da vivere scrivendo.

Lo diventa più tardi che in Francia e in Inghilterra e non con gli stessi risultati, e in maniera così massiccia non essendoci un altrettanto vasto pubblico di lettrici a cui rivolgersi. Inoltre, a differenza che in Inghilterra, non ci saranno mai in Italia così tante scrittrici di letteratura popolare (una Carolina Invernizio è più l’eccezione che la regola): il nero, il rosa, il giallo non sono stati per le nostre scrittrici (e così pure per gli scrittori) la palestra in cui esercitarsi e men che meno l’esempio da seguire. Paradossalmente saranno proprio le eccessive pretese letterarie a far produrre, anche alle donne, tanta cattiva letteratura soprattutto in questo periodo.

Quasi sempre, comunque, i romanzi delle scrittrici vissute a cavallo tra Ottocento e Novecento sono molto interessanti, anche per come si rapportano al femminismo che, in quegli anni, incomincia a organizzarsi in gruppi di tendenza più o meno radicale e a pubblicare numerosi periodici. Legate ai gruppi femministi (specialmente a quello di Anna Maria Mozzoni) furono la Marchesa Colombi, Ada Negri e Sibilla Aleramo, mentre Neera e Matilde Serao, anche se contrarie a parole, ne vennero in qualche modo influenzate; più appartate, perch‚ lontane geograficamente dai luoghi di dibattito sul femminismo, furono Maria Messina, Caterina Percoto, Paola Drigo e Grazia Deledda, anche se, soprattutto la prima fu tra le più attente ed efficaci nel descrivere vite di donne; Amalia Guglielminetti, Annie Vivanti e in un certo senso anche la Contessa Lara rappresentarono infine esempi, anche se contraddittori, di donne “nuove”.

Più tardi, agli inizi del fascismo, le scrittrici e pittrici appartenenti al movimento futurista rappresentarono un gruppo ancora più contraddittorio di donne, ancora meno nuove, che cercarono in alcuni casi (per esempio Rosa Rosà ed Enif Robert) di conciliare il proprio desiderio di affermazione con l’ideologia misogina del movimento e in altri (per esempio Benedetta) accettarono completamente un ideale di donna vista in funzione dell’uomo. Tra le scrittrici che hanno incominciato a pubblicare i loro romanzi durante o nel primo decennio dopo la guerra è compreso il numero forse più alto in assoluto di narratrici di grande qualità, ciascuna con un suo stile del tutto personale e inconfondibile.

Oltre ad Anna Banti e Elsa Morante, le altre ottime narratrici di questo gruppo sono Anna Maria Ortese, Fausta Cialente, Gianna Manzini, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Maria Bellonci. Nessuna di loro può essere definita femminista, termine che alcune di esse hanno espressamente rifiutato (anche quando le loro opere chiaramente lo sono) per cio che di limitativo pensavano vi fosse associato; chi invece, in anticipo sui tempi, ha usato nei suoi romanzi tematiche femministe è stata Alba De Céspedes che però, forse, ha scontato questa scelta con un insufficiente riconoscimento, a suo tempo, della critica ufficiale e, più tardi, di quella femminista. Altre scrittrici dello stesso periodo da ricordare sono Laudomia Bonanni, Livia De Stefani e Milena Milani. Dei casi a sé‚ rappresentano Paola Masino, che scrive i suoi romanzi prima della guerra, e Clotilde Marghieri che, pure appartenendo anagraficamente allo stesso gruppo, pubblica la sua trilogia negli anni sessanta. Le tantissime scrittrici di romanzi e racconti della generazione seguente, aggiungendosi alle precedenti, hanno gradualmente portato la percentuale di donne nella narrativa italiana a valori sempre pi- alti fino a costituire in questi ultimi decenni una presenza massiccia che, se non sembra per ora annoverare maestre della statura di Morante o Banti, comprende un buon numero di valide scrittrici.

In particolare gli anni sessanta-settanta hanno visto una vasta produzione femminista che è andata decantandosi negli anni lasciando emergere le voci più sicure. Dacia Maraini è tra le più eclettiche, scrive romanzi, poesie, teatro, saggi; tra le scrittrici soprattutto di romanzi si contano Carla Cerati, Rosetta Loy, Marina Jarre, Fabrizia Ramondino, Gina Lagorio, Francesca Sanvitale e molte altre ancora, impossibili da nominare tutte; tra le saggiste e narratrici Grazia Livi, Elisabetta Rasy, Maria Rosa Cutrufelli, Giuliana Morandini. Casi a sé costituiscono Beatrice Solinas Donghi, che affianca alla narrativa studi sulle fiabe e libri destinati all’infanzia, e Laura Mancinelli e Maria Corti, docenti universitarie autrici, oltre che di saggi sulle loro discipline, di alcuni tra i migliori romanzi di questi anni. Gli anni ottanta e novanta confermano la tendenza ad un aumento del numero di scrittrici che, con sorpresa e sgomento dei più distratti, ottengono riconoscimenti di critica e/o di pubblico. Tra le più note ricordo Paola Capriolo, Susanna Tamaro, Isabella Bossi Fedrigotti, Marta Morazzoni, Lidia Ravera. Ma andrebbero ricordate molte altre, la cui produzione va dalla narrativa al confine con la saggistica di Clara Sereni agli interessanti esempi di contaminazione linguistica di Laura Pariani e Silvana Grasso.

Maria Laura Platania

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