“Moonlight”, l’intenso dramma di barry jenkins pronto a sfidare lo schiacciasassi “La la land” nella notte degli Oscar

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Moonlight di Barry Jenkins, dall’alto delle sue 8 candidature ai Premi Oscar, si fregia del ruolo di guastafeste al plausibile stradominio di La La Land, sebbene non abbia l’aura di purezza, disincanto e confezionata bellezza cinematografica del film di Chazelle, né tantomeno quel passo, così deciso e sfrontato, così sicuro di sé, che quasi sicuramente permetterà al musical dell’anno (per molti del decennio e del ventennio) di vincere l’ambita statuetta come miglior film. È tuttavia quel tipo di dramma intenso, tutto interiore e intimista, costruito sui personaggi più che sull’azione, e con il suo bel carico di attualità, immerso nella realtà, che all’Academy piace, e che ci trova miracolosamente concordi.

Il film di Jenkins ci porta a Miami, nelle periferie, dentro l’America abitata dai neri, nei sobborghi urbani macchiati dalla droga e cosparsi di violenza, costruiti su logiche bellicose e leggi non scritte. La macchina da presa del regista, al suo secondo lungometraggio, spinta per inerzia nel circuito tipico del cinema indipendente scende allora nelle strade, a spalla e in movimento, restituendo quella realtà dal di dentro, scegliendo di immischiarsi e contaminarsi; poi circoscrive i suoi personaggi, con l’uso della steady, per racchiuderli in quel contesto ma allo stesso tempo, e paradossalmente, anche per estraniarli: corpi avulsi, sicuramente diversi, ma forse anche migliori. Come lo spacciatore Juan (Mahershala Ali), che un giorno si imbatte in un bambino vessato dai compagni di scuola, inseguito e minacciato cerca di scappare e nascondersi: si chiama Chiron (Alex Hibbert), soprannominato da tutti “Piccolo”. Juan e sua moglie Teresa (Janelle Monáe) accettano di proteggerlo, nel calore di un’amicizia nata per caso, ma necessaria. Proteggerlo da una madre tossicodipendente che lo trascura, che tacciandolo di omosessualità, spesso lo rifiuta e lo rigetta. Dentro al suo silenzio, nelle sue comunicazioni essenziali con il movimento del capo, “Piccolo” si difende da tutto questo, nasconde il trauma e lo esorcizza: è il suo modo di porsi davanti al mondo.

Poi cresce, diventa adolescente, prova a scendere a patti con la sua sessualità, ormai chiara, percepita. Prova a conoscersi, a capire chi è. Lo scontro sarà inevitabile, e le conseguenze lo porteranno in prigione. Uscito, sarà un adulto: diventerà uno spacciatore, senza tuttavia perdere i lineamenti caratteristici del suo corpo e del suo animo, avvolti dai riflessi della luce lunare, che sfuma i colori, dipingendo quei corpi “neri” in “blu”. Il film è di fatto strutturato in tre capitoli, con titoli diversi che sono i nomi e soprannomi del protagonista, e che richiamano gli stadi della vita, l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. Moonlight è un “coming of age” misurato, equilibrato, soprattutto in fase di scrittura, trovando nei passaggi narrativi cruciali, precisione, consapevolezza e profonda partecipazione, anche personale ed emotiva del suo autore (ha rimandi autobiografici). Non eccede quasi mai, permettendo alla realtà narrata di non trasfigurarsi e risultare finta o addirittura grottesca, come a volte capita in film che trattano queste tematiche. Ma allo stesso tempo lo stile, di derivazione del cinema indipendente, a volte volutamente rimarcata, non spiazza come vorrebbe, ma spesso si adagia, assuefandosi, risultando anche fin troppo omologabile, e appiattendo un po’ tutto il discorso. Quella macchina da presa calata nella “guerriglia” resta troppo visibile e spesso troppo intenzionata a mostrarsi, tra sfocature, sbilanciamenti e movimenti circolatori poco inclini alla narrazione, invece che mostrare: storie di dolore, di esclusione, sofferenza e ostracismo che abitano quei quartieri, e quei cuori, quella “la nebbia di solitudine che si condensa nel petto”, come scriveva Calvino del suo Pin, protagonista de “Il sentiero dei nidi di ragno”, un romanzo che trova affinità esistenziali con quest’opera filmica. Allora è quando decide di fermarsi, di stare in silenzio per far parlare il suo protagonista, che la macchina da presa acquista forza ed espressione: nei dialoghi, dentro una tavola calda, per esempio. Come il confronto verbale che accompagna il film alla sua conclusione, tra Chiron e Kevin (André Holland): un dialogo disseminato di scorie del passato, con quell’unico atto omosessuale vissuto da Chiron nella sua vita, l’unico punto d’incontro con il suo “io” e il suo corpo, che resta latente e sotteso, che riaffiora flebilmente, con misurata passione e dilagante malinconia. È il cinema dei primi piani, del campo e controcampo, delle prossimità, dei contatti invisibili, ma dalla forza incredibile. Il cinema che parla, che urla, che disorienta. Facendosi da parte.

Voto 7 su 10

Simone Santi Amantini

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