LIFE – NON OLTPREPASSARE IL LIMITE, cercando una ragione di esistere

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Life – Non oltrepassare il limite è un film compatto, coerente, perciò sorprendente. Un film di fantascienza spaziale che sulla carta poteva dire poco o nulla dentro a questo genere, alla luce della numerosa produzione del passato e di questi anni, e soprattutto per i riferimenti altissimi che intende richiamare, su tutti Alien, ma anche più recentemente il Gravity di Alfonso Cuarón. In realtà sono riferimenti che funzionano da faro guida, ispirano senza compromettere, influenzano senza sottomettere: Life non cerca di ricalcarli in modo posticcio, grossolano e sconclusionato, ma li riadatta per se stesso, costruendosi una propria autonomia e una propria vita cinematografica. Una ragione di esistere, tra questi giganti, e dentro a questo genere così ampiamente abusato, e così potenzialmente spremuto.

L’opera regge pressoché in tutti i fronti, e lo fa in maniera anche sottile e minimale: dagli effetti speciali alla storia e i meccanismi narrativi, sul fronte estetico, e nella sintonia tra i personaggi. A scivolare a volte sono alcuni momenti più drammatici che avrebbero richiesto una sosta in più, una lacrima in più, e alcuni dialoghi che sembrano debbano sottostare a modelli imprescindibili, ma che non fanno altro che disturbare il realismo complessivo della vicenda “fantascientifica”. La macchina da presa di Daniel Espinosa, regista svedese di origini cilene (fattore che dice già molto sulla sua poetica), si muove nella parte iniziale come quella di Alfonso Cuarón in Gravity: il messicano l’aveva lasciato fuori, nello Spazio aperto, Espinosa la porta dentro la base spaziale. Ma ancora una volta libera. Libera di creare geometrie e simmetrie perfette tra i vari ambienti, tra i dispositivi, e i personaggi che fluttuano, in un’affascinante resa estetica delle immagini; la macchina crea un piano sequenza morbido e fluido, spettacolare per quanto umile e costretto; danza in questi interni, e librandosi così liberamente, rende vasto ciò che è limitato, allarga ciò che è stretto, dà respiro a ciò che è claustrofobico. Ci dice che il film sarà tutto lì dentro, la partita per il futuro della Terra, per la sopravvivenza, si giocherà tra le pareti di una stazione orbitante, lontana e immersa nel vuoto dello Spazio.

L’equipaggio salverà un forma aliena in stato cellulare, che poi cercherà di ucciderli. “Calvin”, così viene chiamato, poteva difficilmente risultare originale, invece questo mostro tentacolare, intelligente e letale, si differenzia dai suoi predecessori, e si ritaglia un suo spazio vitale nell’immaginario del genere, e dei sottogeneri. Le dinamiche che questa creatura mobilita sono pertinenti ad una sceneggiatura salda che riesce da un lato a mantenere un ritmo fondamentale, dall’altro a non smarrirsi nei vari codici dei generi che percorre, offrendo le giuste dosi di tensione, suspense, e paura proprie del thriller e dell’horror. Come la macchina da presa, anche la sceneggiatura dà spazio: agli effetti speciali e a tutte le sequenze più cinematograficamente complesse, tecnicamente, e visualmente più esaltanti (anche per la incombente colonna sonora); ai personaggi che incarnano vari tipi, e caratteri, con attori che emergono e tengono alla distanza drammatica.

La vera forza di Life – Non oltrepassare il limite è proprio la sua verosimiglianza, il fatto di restare ancorati ad una percezione reale dei fatti narrati. Così anche con la presenza di un alieno tutto risulta plausibile, non sfocia mai in una fantascienza esagerata, ma in una più “alla Michael Crichton”, cioè supportata alla base da una scienza convincente e ammissibile, risultando perciò più  vicino in tal senso a Gravity ed Interstellar, ma contaminandosi delle atmosfere horror di Alien.
Life sopravvive, e vive.

Voto 8 su 10

Simone Santi Amantini

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