Goffredo Mameli: “Il canto degli italiani”

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Interpretazione della poesia di Mameli musicata da Novaro

Tutti conosciamo il nostro inno nazionale “Il canto degli italiani” conosciuto anche come “Fratelli d’Italia” o “Inno di Mameli” dal nome del suo autore  Goffredo Mameli che nel 1847 compose. Tale inno è una poesia, che Mameli scrisse con l’intenzione di farla musicare e farne un canto nazionale. Egli manifesta la sua “profezia” e speranza di vedere l’Italia unita. In questa lirica c’è molto sentimento, ma anche l’intento di dare forza e credibilità alla sua profezia, come se egli volesse dire: “Fratelli, crediamoci a questo progetto, a questo sogno… unitevi a questo perché ci possiamo riuscire”. Nel settembre 1847 Mameli termina la composizione del testo e il 10 novembre dello stesso anno lo invia a Torino a Michele Novaro, un musicista in erba, per comporne la musica. Novaro si mette subito al lavoro e per il 10 dicembre del 1847 il canto degli italiani ha il suo battessimo. L’inno è  auspicio all’unificazione e alla costruzione di un’identità patriottica. Nella poesia sono elencate una serie di argomentazioni: religiose, storiche, politiche recenti e lontane che hanno segnato la storia del Paese. Vi sono infatti versi in cui l’autore riferisce momenti storici laddove gli italiani hanno dato prova vincente della loro forza e del loro coraggio. Tali riferimenti sembrano quasi sottolineare un incoraggiamento alla lotta per un popolo forse debole, al tal punto che storicamente è stato dominato e diviso in diversi Stati, privato così dalla possibilità di costruire la sua identità. E’ da ipotizzare che comunque l’ideologia di creare un’Unità nazionale nasce probabilmente da un progetto e sogno molto antico e lontano dal raggiungimento dell’Unità stessa. Sicuramente il medesimo sogno nacque al tempo dei Romani. L’Impero Romano raffigurava la volontà di unificare tante piccole e medie città o villaggi in un’unica organizzazione o meglio tante piccole organizzazioni unite in un’unica Istituzione, laddove regnassero la concordia, la condivisione, l’uguaglianza e la pace, cos’ come anche l’amore, che unisce l’umanità. È lo stesso sentimento che conduce alla creatività umana e che permette di raggiungere grandi obiettivi come quello della pace e dell’aiutarsi nell’umiltà. Ma cerchiamo di captare più da vicino qual è  il significato delle strofe dell’inno di Mameli.

Il testo inizia recitando: “Fratelli d’Italia/ L’Italia s’è desta, Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa”.
Qui Mameli richiama il popolo esortandolo a Svegliarsi (S’è Desta) o meglio  esalta a risvegliare un sentimento esistente nel profondo del cuore di ogni italiano. Mameli cita Scipio, ossia esalta l’opera del generale e politico romano Scipione detto l’Africano vissuto nel 253 – 183 a. C.  vincitore dei Cartaginesì e di Annibale nel 202 a. C. a Zema. Mameli lo cita come un personaggio da prendere come modello per lottare. Scipione è il simbolo che rappresenta il sentimento, forza e coraggio del popolo italiano di un tempo. L’Elmo del condottiero simbolicamente cinge la testa di tutti gli italiani per auspicare le stesse vittorie di Scipione sugli invasori stranieri. Di conseguenza si esalta a un ritorno alla grandezza antica come quella del popolo al tempo di Scipione. Questo rappresenta un richiamo metaforico alle gesta eroiche e valorose degli antichi Romani. “Dov’è la Vittoria?/ Le porga la chioma”: vittoria era un’antica divinità romana incarnazione della vittoria delle guerre. Mameli presumibilmente fa un richiamo a questa dea, proprio per evidenziare il sentimento dell’antichità, ma anche per richiamare la fede in Dio affinché questo aiuti il popolo italiano al compimento dell’unità. “Ché schiava di Roma/ Iddio la creò”. Si fa riferimento ancora alla dea Vittoria; nell’antichità si credeva che Dio la fece schiava di Roma che sempre vinse i suoi nemici, nel senso che Dio l’ha mandata a Roma affinché ella proteggesse e aiutasse questo popolo. I versi sono molto coinvolgenti fin dall’inizi, invitano all’azione, alla ribellione, anche a costo della morte, come recitano quelli del ritornello: “Stringiamci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò” pur di “far libero il suolo nativo”. Nella stessa poesia Mameli evidenzia “Noi siamo da secoli/ Calpesti, derisi,/ Perché non siam popolo,/ Perché siam divisi./ Raccolgaci un’unica Bandiera, una speme: Di fonderci insieme/ Già l’ora suonò./ Stringiamci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò”. In un contesto in cui bisogna dire basta a questa separazione o divisione si esorta gli italiani a stringersi e a raccogliersi Stringiamoci a costo della vita. L’Italia suona l’ora di essere e tornare un popolo, reclamando la sua identità, in tutt’uno ancora in cui Mameli recita: “Uniamoci, amiamoci, l’Unione, e l’amore/ Rivelano ai Popoli/ Le vie del Signore; Giuriamo far libero il suolo natìo: Uniti per Dio/ Chi vincer ci può? Stringiamci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò. Dall’Alpi a Sicilia Dovunque è Legnano, Ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano, I bimbi d’Italia si chiaman Balilla”. Parole forti e ricche di sentimento. Le stesse che innalzano l’importanza di volersi bene e amarsi e che fanno comprendere che solo nello stare uniti, nell’aiutarsi l’uno e l’altro, le battaglie si vincono veramente. Si può vincere solo se uniti.

Parliamo qui di un testo poetico o di un inno che nelle sue parole ci può insegnare tanto. Infatti, se riflettiamo, ogni battaglia che la vita ci presenta la possiamo vincere solo se siamo uniti, se puntiamo agli stessi obiettivi, se ci ascoltiamo e ci facciamo prendere dal sentimento dell’amore. La “Balilla”, nella lirica è simbolo della rivolta popolare di Genova che prese le mosse dalla rivolta popolare contro gli occupanti dell’impero asburgico: si tratta del soprannome del fanciullo, forse un certo Giambattista Perasso, che il 5 dicembre 1746 scagliò una pietra contro un ufficiale, dando l’avvio alla rivolta che portò alla liberazione della città. La poesia di Mameli continua recitando: “Il suon d’ogni squilla/ I Vespri suonò./ Stringiamci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò”. L’evento cui fa riferimento Mameli è quello dei “Vespri Siciliani”: nome dato al moto per cui la Sicilia insorse dopo 16 anni di dominio francese. All’ora dei vespri del lunedì di Pasqua del 31 marzo 1282 tutte le campane si misero a suonare per sollecitare il popolo di Palermo all’insurrezione contro i francesi. Nell’ultimo verso Mameli recita: “Son giunchi che piegano le spade vendute: già l’Aquila d’Austria/ Le penne ha perdute. Il sangue d’Italia, il sangue Polacco, Bevé, col cosacco, Ma il cor le bruciò. Stringiamoci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò”. In poche parole, il poeta racconta che ormai la dominazione straniera è finita, non ha più le forze per lottare e quindi il buon cuore degli italiani ha vinto la battaglia. “Stringiamoci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò”: queste parole evidenziano che ora l’Italia c’è, esiste, è nata una Nazione.

Questa è la mia interpretazione sulla poesia di Mameli, non semplice da comprendere fino in fondo, perché tramite le sue metafore si discosta dalla realtà, dove il poeta esprime il suo sogno immaginando e comprendendo comunque il desiderio di ogni popolo di radunarsi in un’identità di nazione. In questo contesto c’è da porsi la domanda se abbiamo o meno raggiunto veramente questa identità e come ci rapportiamo con il nostro essere parte di una Nazione. Siamo giunti al concetto “Cultura” in termine di nazione o questa si trascina delle ambiguità mai individuate e superate. Cosa significa essere nazione o riconoscersi come parte di un’identità nazionale. Esisteva un popolo che voleva la stessa cosa o un gruppo di uomini che hanno condiviso un obiettivo comune. Sono domande queste forse inutili o stupide da farsi, ma chissà se nel farsele non si trovi qualcosa che ci possa far comprendere alcuni aspetti del nostro Paese.

 Giuseppe Sanfilippo

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