“L’inganno”, il gioco lucido e sottile di Sofia Coppola

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Sofia Coppola torna dietro la macchina da presa dopo 4 anni e il deludente Bling Ring, e nuovamente per un film in costume, come era accaduto in precedenza per Marie Antoinette del 2006. L’inganno è l’adattamento del romanzo A Painted Devil (1966) scritto da Thomas P. Cullinan, ed è ambientato durante la Guerra di Secessione Americana. Dentro questa ambientazione il film della Coppola racconta una vicenda specifica, in modo conclusivo e circoscritto: forma e narrazione si piegano ad essa, senza farsi coinvolgere da avvenimenti o fattori esterni, di contesto; la guerra c’è ma è lontana, fa da sfondo e contorno, e in pochi e mirati momenti interviene nella tessitura generale a rafforzare tensioni ed affrettare decisioni; di fatto poco e nulla viene coinvolto all’interno della vicenda, che diventa palcoscenico esclusivo e privilegiato degli attanti, delle splendide e fatiscenti scenografie (interne ed esterne) e delle correlazioni tra questi elementi scenici: il film inizia dove inizia questo racconto, non un minuto prima né un minuto dopo, e termina quando il racconto è terminato. È tutto lì.

La vicenda in questione è quella del caporale nordista Jonathan McBurney, già interpretato da Clint Eastwood nel primo film adattato dal romanzo di Cullinan (La notte brava del soldato Jonathan, 1971), che nel film della Coppola invece assume le sembianze di Colin Farrell: infatti l’incipit avviene con il suo ritrovamento nel bosco da parte della piccola Amy (Oona Laurence). La bambina, uscita a raccogliere funghi, conduce il soldato al collegio femminile Fansworth della signorina Martha Fansworth (Nicole Kidman), che presiede con la sua assistente Edwina (Kirtsen Dunst), e con altre fanciulle, tra le quali spicca la personalità forte e provocatoria di Alicia (Elle Fanning). La presenza maschile rompe la cornice di un quadro femminile apparentemente perfetto, e porta inevitabilmente squilibri e sconvolgimenti. In quell’universo femminile a cui la Coppola rivolge lo sguardo del suo cinema da tempo (se pensiamo che Il giardino delle vergini suicide è del 1999) l’uomo-maschio diventa la variabile che fa saltare equazioni e sistemi di buone maniere ed educazione, solidarietà e carità cristiana, tramandati da decenni e che nell’ottocento costituivano baluardi inamovibili, dietro ai quali spesso nascondersi. Dietro al quale si nasconde anche il film.

L’inganno, di fatto, aleggia decadente e inafferrabile, e inebria: la Coppola, che per l’occasione ha vinto la Palma d’Oro per la regia all’ultimo Festival di Cannes, riesce a muoversi in queste atmosfere rarefatte, come suo solito, con disinvoltura ed intelligenza restituendo una sensazione di disagio e disturbo latente, sempre misurato e mai del tutto deflagrante. È un microcosmo autosufficiente quello creato dalla Coppola con la sua macchina da presa educata e minuziosa capace di ricavare scene dentro ad un proscenio costante, descrivere momenti e le rotture narrative in sottotesto, affiggendo qua e là quadri di rara bellezza riempiti dalle posture di splendide presenze femminili di attrici in stato di grazia e dalle luci naturali (e le ombre) del direttore della fotografia Philippe Le Sourd che nascondono le reali fattezze del film, in bilico tra il melodramma, il thriller e la gothic story, accentuando allo stesso tempo e in modo del tutto paradossale tanto la sua algida impermeabilità, quanto la delicatezza e la vulnerabilità.

L’inganno imbastisce un gioco di potere e fascino, di seduzione ed ambiguità, dove desideri e passioni, allusioni sessuali, percepibili nell’atmosfera, restano sempre velati e svelati sottilmente, tra sguardi, ammiccamenti, acconciamenti crine e perle, baci rubati, strette di mano, istinti repressi, corpi sfiorati e lavati, che si cercano o che si respingono. Il film della Coppola pulsa ed arde prepotentemente ma con finezza, il gioco in atto ribalta le prospettive sui personaggi a più riprese: quando sembra che a condurlo siano le fanciulle, allora la palla passa in mano al caporale, quando la parità appare come logico arrivo il tavolo di gioco mischia nuovamente le carte. Un gioco pericoloso e sottile che stravolge i rapporti di forza e dove ad un certo punto ognuno si trova a giocare da solo.

Ma è un gioco che non ha spinte, che non eccede quasi mai, che svolge tutto in maniera pulita e lineare, in una narrazione placida e priva di guizzi significativi: il banco non salta mai veramente, la vicenda resta plausibile e la realtà non si trasfigura. La sensazione è che sia anche il cinema a nascondersi dietro un esercizio di stile fin troppo algido ed asettico, sempre plausibile e coerente nel suo incedere, ma che rischia in più riprese una ripetitività ed un appiattimento (probabilmente voluti) percepibili. Se da un lato riesce ad ammorbare l’aria di questo universo apparentemente perfetto, di creare i dinamismi e le sorprese al suo interno e dentro ai personaggi, e non a priori o in quell’esterno che è lasciato in campo lunghissimo, L’inganno si dimentica forse di sfruttare in fase di scrittura le regole della suspense, che sono costitutive del bluff e dell’inganno, del sotteso e del non detto, del sospeso e del non scontato, per innervare la narrazione e per rendere il gioco ancora più incerto e insondabile, l’approccio più emotivo e passionale e non solo cerebrale, e il coinvolgimento, a questo punto, più profondo e completo.

Voto 7 su 10

Simone Santi Amantini

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