“La Traviata” di Alfredo Corno. Una messa in scena senza (o con troppi) punti di vista

Data:

Teatro del Maggio Fiorentino, Opera di Firenze. Giovedì 23 novembre 2017

Non è mai facile approcciarsi a un’opera così famosa, popolare, abusata, qual è La Traviata di Verdi. Difficile dire cose nuove, difficile trovare un senso compiuto a un libretto così scarno e a un linguaggio popolare di così poco spessore – si sa, questa opera è un agglomerato di temi orecchiabili, che in realtà a un attento ascolto risultano privi di solida consistenza. A queste difficoltà non hanno saputo rimediare Alfredo Corno alla regia e Angelo Sala alle scene. In effetti il tutto è apparso poco organico, disunito, slegato, sia per quanto riguarda l’impianto scenico sia per quanto riguarda i tempi teatrali. Le scene mostrano già di per sé dei paradossi fin dall’inizio (o anche prima dell’inizio, quando durante l’ouverture passano immagini del funerale di Violetta, che a dire il vero già un po’ spiazzano), quella del primo atto per esempio, ambientata tra i tavolini di un caffè, presenta, nonostante il contesto francese del melodramma, le scritte in italiano “Bar” e “Tabacchi” – a cui si somma il “Teatro 5” della scena del ballo -, trovata a cui non riesco a trovare una spiegazione. Si sa infatti che il regista ha deciso di collocarla in Italia, ma ciò è impossibile, perché i riferimenti da libretto alla Francia e a Parigi sono fin troppi. Anche l’idea di fare cantare un’aria a Violetta dentro una fontana a mo’ di Anita Ekberg in La Dolce Vita, beh, a dire il vero mi è parsa un po’ Kitsch. Si passa dalla camera della protagonista, con un’ambientazione anni ’50 in stile liberty – interessante per quanto riguarda l’arredamento -, per giungere alla scena del ballo, che purtroppo risulta con molte lacune: i movimenti del coro (artefice comunque di un’ottima prova vocale) non sono compatti, la scelta cromatica dei costumi è indigesta, i numeri sono grotteschi e senza idee. La scena poi è troppo scarna, è un vero e proprio magazzino dove è stato allestito un party. Già da queste scene di cui ho parlato si intuisce uno squilibrio, un mancato legame tra l’una e l’altra, che non può dare luogo a una fluida continuità. L’ultima invece mi è piaciuta particolarmente, la stanza d’ospedale tra luci e ombre dove è posta Violetta è intensa ed evocativa e ben riuscito è anche l’assolo di danza prima della romanza, che rende il complesso poetico.

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Foto Simone Donati

La buona prova dell’orchestra, diretta  da John Axelrod non basta a risolvere le sorti di un allestimento sfortunato, anche perché, come detto prima, in questa opera la musica da sola, di poco spessore, non può bastare ad allietarci.

C’è da spendere invece parole positive sulle prove  individuali dei cantanti. Maria Mudryac, chiamata a rimpiazzare Francesca Dotto, dà prova delle sue qualità canore e istrioniche. Ella ci racconta con disinvoltura sia la Valery spiritosa, civetta, immersa nel suo mondo di lusso e di apparenza, sia la donna profonda, generosa, tragica e innamorata. La cantante risulta pienamente credibile ed eccelle nella romanza d’inizio terzo atto, dove si lascia immergere dalla dimensione di nostalgia, visione e lirismo. È buona anche la prova di Matteo Lippi, anche se a mio avviso il suo Alfredo non sempre si confà al clima di tragedia della vicenda e non sempre si avverte sul palco il feeling tra i due cantanti e questo emerge soprattutto nei duetti, dove manca un unisono di sentimenti e di emozioni. Ottima invece la performance del Giorgio Germont Sergio Vitale, che interpreta con credibilità una parte complessa, un padre che deve restare in equilibrio tra l’amore per il figlio e la pietà per la condizione di Violetta. Egli ci riesce in pieno, aiutato dal suo bel timbro, rotondo, caldo, profondo, che da solo crea l’intensità del suo personaggio.

In definitiva, di questo allestimento ammiro il rischio e il coraggio nel cercare di creare un qualcosa di nuovo e mai mi scaglierò contro coloro che ricercano la sperimentazione e la proiezione nel futuro. Questo però non mi impedisce di dire che purtroppo non ho qui ritrovato organicità, fluidità… soprattutto credibilità. Non è stata una Traviata né troppo tragica, né troppo comica – piuttosto un pastiche, un mix d’ingredienti che ho avvertito come casuali e non pensati a dovere. Dove voleva arrivare il regista? Qual è il suo punto di vista? È questo che non ho capito e che ancora non capisco (potrebbe anche essere colpa mia), non potendo così trovare una prospettiva precisa che connoti questa messa in scena. Bisogna per forza avere visto il capolavoro felliniano per godersi lo spettacolo? La Dolce vita ok, ma poi?

Stefano Duranti Poccetti

Direttore
John Axelrod (19-21-23-28/11)
Sebastiano Rolli (30/11; 2/12)
Regia
Alfredo Corno
Scene
Angelo Sala
Costumi
Alfredo Corno e Angelo Sala
Coreografia
Lino Privitera
Luci
Alessandro Tutini
Maestro del Coro
Lorenzo Fratini
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Violetta Valery
Francesca Dotto*
Maria Mudryak
Alfredo Germont
Matteo Lippi
Giorgio Germont
Sergio Vitale
Flora Bervoix
Ana Victória Pitts
Annina
Marta Pluda
Gastone
Rim Park
Barone Douphol
Dario Shikhmiri
Marchese d’Obigny
Qianming Dou
Dottor Grenvil
Adriano Gramigni
Giuseppe
Luca Tamani / Fabrizio Falli
Domestico di Flora
Nicolò Ayroldi / Nicola Lisanti
Commissionario
Antonio Montesi / Lisandro Guinis
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* Per indisposizione di Francesca Dotto, il ruolo di Violetta Valery sarà sostenuto da Maria Mudryak
Foto Simone Donati

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