“Quasi grazia”. Ricordo della prima donna nobel Italiana e femminista ante litteram

Data:

Al Teatro India di Roma, fino al 4 febbraio 2018

Gli inizi del ’900 segnarono la nascita della lotta delle donne per la loro emancipazione e parità dei diritti dopo l’incendio nella fabbrica Americana alla morte di parecchie lavoratrici per la mancata sicurezza sul lavoro l’8 marzo del 1908. Questo movimento di riscossa popolare dell’altra metà del genere umano toccò pure l’Italia e s’unì alle battaglie per il progresso e lo sviluppo del mezzogiorno che era rimasto indietro nell’unità d’Italia, portata avanti dai Garibaldini per il regno di Piemonte e Sardegna con la regia di Cavour. Una di coloro che si distinse in quest’operazione nell’isola d’origine nuragica a sud e catalana a nord fu Grazia Deledda, che nativa di Nuoro nel 1900 lasciò la Sardegna per tentare di trovare la sua autonomia ed il successo artistico nel continente sposando l’ingegnere Palmiro Mimesini che divenne praticamente il suo uomo di fiducia e segretario factotum dandogli tre figli. La sua vita è stata sinteticamente ed essenzialmente ricostruita tra la realtà e la suggestione lirica, la citazione onirica dei protagonisti delle novelle e dei romanzi,da Marcello Fois, che ha poi contattato la collega scrittrice Michela Murgia, la cui titubanza a portare l’eroina sarda in scena,esordendo sul palcoscenico è stata vinta dalla persuasione di Veronica Cruciani. Si passa così dalla lite furibonda con la mamma ed il fratello nei tipici costumi isolani,creati da Rita Cossu, allorché nella casa Barbaricina annuncia loro la sua intenzione di trasferirsi;vedendosi come ombre cinesi i personaggi e gli animali della natura che fu il suo tema principale,insieme all’amore ed al travaglio di coscienza di codesta mistica religiosità laica. Il secondo momento della pièce è la premiazione con il nobel a Stoccolma nel 1930 e l’intervista da parte di un giornalista svedese che riepiloga le sue idee politiche e letterarie e le fatiche che le costarono, in particolare ”Elias Portolu” con il senso lacerante della colpa ed il rimorso perenne e “Canne al vento”con la fedeltà e l’intimo silenzio del servitore. Infine il terzo attimo tragico e doloroso,come un ripiegamento su se stessa ed il sacrificio accettato nello studio del pneumologo che le predice che non c’è più niente da fare per il cancro ormai in metastasi, mentre il marito piange e si dispera, inveisce, volendo illuderla. Ella si limita a dire ”come si viene si va” ed a pregare il coniuge di pubblicare il suo manoscritto ”La chiesa di solitudine” in cui la sua figura è personificata quasi alla lettera,il cui dramma è anticipato all’inizio dalla violenza fonetica di tuoni, lampi e fulmini tradotta da F. Arrogalla. Straodinaria nella sua immedesimazione attoriale è la Murgia con al suo fianco un valente trio composto da Lia Careddu nei panni della vestale materna, M. Brinzi e G. Mannias. Lo spettacolo si è replicato fino al 4 febbraio al Teatro India

Susanna Donatelli

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