1998-2018: vent’anni senza Lucio

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“L’ARTISTA NON ESISTE, ESISTE LA SUA ARTE” (Lucio Battisti)

Il 9 settembre 1998 una tra le voci più straordinarie della musica leggera italiana tace per sempre: la voce di Lucio Battisti. Con il suo commiato, avvolto nella massima riservatezza esattamente come lo sono stati i suoi ultimi diciott’anni di vita, l’artista porta a compimento, suo malgrado, quel processo di progressiva sottrazione di sé al mondo cominciato nel 1980.

Considerando la sua parabola artistica, parafrasando il titolo del capolavoro di Alfred Hitchcock potremmo definire Battisti come “l’uomo che visse due volte”. Dalla fine degli anni sessanta e per tutto il decennio dei settanta, forte del sodalizio magico col paroliere Giulio Rapetti in arte Mogol, Lucio è stato, autenticamente, il “cantante di tutti”, capace di unire l’Italia da nord a sud, da destra a sinistra, grazie a canzoni nate per entrare nel cuore della gente senza uscirne più. Pur se caratterizzato da una fisiologica e costante evoluzione sia umana che professionale, all’interno della quale hanno trovato posto progetti più sperimentali come Anima latina (1974), il Battisti di quegli anni ha mantenuto sempre un carattere “popolare”, che gli ha permesso di diventare uno dei personaggi più amati dal pubblico, grazie anche a una certa esposizione mediatica che, seppur mai gradita dall’interessato, ha senz’altro contribuito a costruirne il successo. Con l’Italia ormai ai suoi piedi, l’ambizioso Lucio ha tentato di espandere il proprio dominio negli Stati Uniti (con l’album Images, 1977, contenente le versioni in inglese di alcuni suoi successi), venendone però respinto. Pazienza: con l’indiscusso dominio in patria, arricchito da un discreto riscontro nel resto del Continente (oltre che in inglese, Battisti ha inciso alcuni suoi successi pure in tedesco e spagnolo), ci sarebbe stato di che accontentarsi, e invece no.

Il 1980 è l’anno della svolta, e l’inizio della “seconda vita” di Battisti. Dopo Una giornata uggiosa, ennesimo capolavoro di una carriera già straordinaria, con una decisione a sorpresa il cantante, all’apice del successo, pone fine alla decennale collaborazione con Mogol. Nauseato dall’eccessiva commercializzazione della propria musica, disturbato dalla soffocante attenzione dei media, ma anche consapevole della necessità di trovare nuovi stimoli artistici, Battisti comincia l’opera di demolizione del proprio mito con caparbietà e coraggio, senza più voltarsi indietro. Il primo elemento di radicale rottura col passato, già in qualche modo anticipato dal progressivo diradarsi delle sue uscite pubbliche sul finire degli anni settanta, è la decisione di non apparire più in pubblico in nessuna forma (quindi niente televisione, radio o eventi dal vivo). Esattamente come Mina, d’ora in poi Battisti comunicherà col mondo soltanto attraverso i suoi dischi. Oltre a ciò, archiviata l’esperienza con Mogol, dopo un incerto album di transizione (E già, 1982, con la moglie accreditata quale autrice dei testi), Battisti si lega a un nuovo paroliere: il poeta Pasquale Panella. Da questo sodalizio nascono i cosiddetti “album bianchi” (così ribattezzati per lo stile minimale delle copertine, curate dallo stesso Battisti), in cui i testi ermetici di Panella si innestano imprevedibili e funambolici sulle musiche di un Battisti costantemente al passo coi tempi e sempre più incline a rinunciare a melodia e cantabilità in favore di una marcata rarefazione sonora, in cui l’elettronica soppianta pian piano gli strumenti. Di fronte a tali stravolgimenti il pubblico – specie i “battistiani della prima ora” – rimane disorientato, stentando a riconoscere nel Battisti di album quali Don Giovanni e L’apparenza lo stesso artista de La canzone del sole e di tanti altri successi da cantare nelle serate con gli amici, magari in spiaggia di fronte a un bel falò. Non solo il pubblico, ma anche parte della critica rimane interdetta. Eppure, nonostante le scarse vendite e l’incomprensione dei più, Battisti prosegue imperterrito a testa bassa, difendendo orgogliosamente la sua nuova dimensione artistica che per lui significa indipendenza, libertà creativa e sprezzo delle logiche del mercato discografico. Hegel, del 1994, è purtroppo l’ultimo disco dell’artista e probabilmente il punto più alto del periodo “panelliano”. Chissà come si sarebbe ulteriormente evoluto il suo stile e dove sarebbe arrivato, se soltanto ne avesse avuto il tempo…

Al di là dei fiumi d’inchiostro versati sui vari misteri legati ai suoi ultimi anni di vita, al di là delle tristi vicende giudiziarie scatenatesi attorno all’immenso patrimonio artistico (e non solo) lasciato agli eredi, al di là delle voci sul presunto fantomatico album postumo, da varie fonti dato per sicuro ma mai apparso finora, al di là del bene e del male resta una certezza che ci consola almeno in parte del vuoto incolmabile provocato dalla sua prematura scomparsa: la musica. E’ senza dubbio più facile amare il “primo” Battisti, ma sarebbe un vero peccato trascurare il “secondo”, e privarsi così della possibilità di ascoltare perle del calibro di Don Giovanni, L’apparenza, La metro eccetera, La bellezza riunita, Hegel, e potrei continuare ancora… Due artisti in uno, due approcci diversi, due stili diversi, ma la voce, la voce è sempre quella. Emozionante. Fragile. Inconfondibile. Unica.

Francesco Vignaroli

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