“Santiago, Italia”: c’era una volta in Cile

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ALMENO TU CHE PUOI FUGGI VIA CANTO NOMADE / QUESTA CELLA E’ PIENA DELLA MIA DISPERAZIONE / TU CHE PUOI NON FARTI PRENDERE” (dalla canzone Canto nomade per un prigioniero politico del Banco Del Mutuo Soccorso, ispirata ai fatti del 1973 in Cile)

Molti anni prima dell’11 settembre 2001 c’è stato un altro drammatico 11 settembre passato alla Storia: quello del 1973, giorno in cui l’esercito cileno portò a compimento un fulmineo golpe per destituire il presidente Salvador Allende (morto nel corso dell’attacco a La Moneda, il palazzo presidenziale) e instaurare una feroce dittatura, mettendo così fine al lungo corso democratico vissuto dal Paese.

Dopo un silenzio durato tre anni (Mia madre, del 2015, il suo ultimo film finora) Nanni Moretti è tornato in sala, e per farlo ha scelto Santiago, Italia, un documentario, genere sul quale, escludendo l’ibrido Aprile (1998), non si era più cimentato dai tempi de La cosa (1990), opera dedicata ai dibattiti sorti nelle varie sezioni locali del PCI in seguito alla proposta di riforma del partito avanzata dall’allora segretario Achille Occhetto.

Suddiviso in quattro capitoli che spaziano dal “prima” al “dopo” rispetto al fatto centrale, Santiago, Italia rievoca i terribili giorni del colpo di stato in Cile attraverso le testimonianze di alcuni esuli cileni rifugiatisi in Italia grazie al fondamentale aiuto dell’Ambasciata Italiana nella capitale Santiago (tra gli intervistati, anche alcuni funzionari italiani dell’epoca). Pur dichiarando apertamente da quale parte stia (“IO NON SONO IMPARZIALE!”), per amore di completezza e onestà intellettuale il regista sceglie di dar voce anche all’”altra parte”, cioè ai militari, intervistandone un paio (un alto ufficiale e un ex soldato ora in carcere per i crimini commessi durante la dittatura) e mostrando così quanto ancora le ferite del Paese siano vive e laceranti.

Limitando la sua presenza al minimo (lo si vede soltanto un paio di volte, e in alcuni casi si sente la sua voce durante le interviste), Moretti cede volentieri la parola e la scena alle persone e alle loro storie; storie singole, frammenti individuali che però, cuciti insieme, fanno la Storia con la “S” maiuscola. Rispettando i canoni del genere documentario (interviste alternate a brevi spezzoni di filmati di repertorio) e senza cedere mai alla retorica né all’enfasi, il regista adotta uno stile semplice ed essenziale per raccontare una delle pagine più dolorose della storia del secondo Novecento, con un approccio forse più intimista che politico. Non c’è la presunzione di insegnare, quanto il bisogno di ricordare e capire, e la volontà di stimolare gli spettatori ad approfondire. Ma non è solo un film sul Cile: il capitolo finale, incentrato sulla “seconda vita” in Italia degli esuli cileni, è un’occasione per riflettere sull’incerto presente del nostro Paese, senza nascondere una certa nostalgia – che il regista probabilmente condivide, anche per ragioni anagrafiche, con gli intervistati – per gli anni Settanta, gli anni delle grandi ideologie ormai tramontate e di un’etica pubblica ancora percepibile, anni in cui l’Italia – a detta degli stessi esuli cileni – era un Paese migliore.

Francesco Vignaroli

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