NOCI SONANTI: intervista ai registi Damiano Giacomelli e Lorenzo Raponi

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Premiato al Biografilm Festival tra i “nuovi Talenti” con il Premio HERA, Noci Sonanti di Damiano Giacomelli e Lorenzo Raponi racconta la vita della tribù delle Noci Sonanti, fondata a fine anni Ottanta da Fabrizio, che rifiuta la corrente elettrica e vive nell’entroterra marchigiano.

Noci Sonanti potrebbe essere un biopic: ma guardandolo attentamente ci sono tantissimi particolari che riportano ad un’estetica, ad un’idea di cinema con uno stile molto ben precisi. Come avete conciliato l’idea del documentario con il vostro stile di regia?

Damiano Giacomelli: in qualche modo il racconto filmico è venuto anche prima di noi due. La co-regia è un derivato, o una necessità o una volontà , di raccontare al pubblico che vede magari per la prima volta i protagonisti, con un linguaggio classico che potesse far uscire la dimensione privata attraverso l’utilizzo dei primi piani ma contemporaneamente non perdesse la situazione, che poi è la tribù. Per cui due macchine lì presenti con la stessa consapevolezza rispetto al racconto derivava da questo: poi quotidianamente ci aggiornavamo su quello che pensavamo fosse giusto, su come continuare il lavoro e come pensarlo, anche in base alla traccia narrativa, cioè alla storia che pian piano stava prendendo forma.

Rimanendo sul vostro quotidiano nella tribù, avete girato per due mesi: avete trovato qualche (normale) resistenza difronte alla macchina da presa? Il risultato è molto naturale, la lavorazione com’è andata?

DG: lo sforzo nostro, da una parte, è stato quello di provare ad essere molto vicini senza essere invasivi, senza modificare la natura della nostra presenza lì. Dall’altra parte c’era sicuramente Fabrizio (Cardinali, uno dei fondatori della tribù nonché protagonista del film, ndr) che aveva avuto altre esperienze, non cinematografiche ma tipo Geo & Geo e cose così, e che è interessato a diffondere il proprio stile di vita, sperando che anche altri vogliano assumerlo, ed imitarlo, proprio per il principio che dà vita alla tribù. Fabrizio è stato molto collaborativo, anche con una consapevolezza cinematografica in più; Siddartha l’ha preso come un gioco, e chiaramente la difficoltà ad un certo punto è stata quella di non farlo diventare troppo un gioco, al quale voleva giocare continuamente anche lui! Passava anche dall’altra parte della macchina e voleva girare… però comunque c’è stato un lavoro diverso, da un certo punto di vista era proprio quello di farsi notare e sentire il meno possibile…

Nei due mesi di girato, a livello personale, come vi siete integrati? Che tipo di vita avete vissuto?

DG: Mah, per me i picchi dell’esperienza sono stati quelli che riguardano il lato spirituale e trascendente della tribù. Nel senso che proprio la volontà di non modificare la natura con la propria presenza lì portava ad interagire meno rispetto a come avrei fatto in condizioni normali, per come sarei abituato, in alcuni momenti per diventare io il film… insomma, derivava dalla necessità di non modificare quello che stava accadendo, considera che proprio quell’estate lì era l’estate giusta, quindi l’unica, per raccontare la fase di passaggio di Siddartha, cioè dall’infanzia a qualcos’altro. Insomma era il momento in cui si faceva alcune domande importanti, a prescindere dal’influenza o meno del padre… non volevamo modificare questo insomma: pensa che loro non hanno ovviamente neanche la corrente, una telecamera era qualcosa che si notava eccome. A margine, è nato chiaramente un bel rapporto: ma per me, a margine.
LR: Non volevo rovinare, in qualche modo, quello che stavamo creando pian piano, e neanche contaminare quello che già c’era. Diciamo che la natura della nostra presenza all’interno della tribù si è via via evoluta: come succedevano determinate cose, come c’erano e si prospettavano necessità diverse. All’inizio era più difficile negare a Siddartha una partita a carte dopo aver mangiato, e quindi c’era un’integrazione maggiore che passava sempre per il momento del pranzo, che in tribù è una fase molto lunga e non certo un momento mordi e fuggi. Molto spesso mangiavamo dopo di loro, e quindi Sid voleva giocare a carte: poi questo rapporto si è via via evoluto, siamo diventati più chirurgici, abbiamo capito che in determinate situazione la natura della nostra presenza doveva cambiare e siamo stati meno accondiscendenti nei confronti del ragazzino, ci è sembrato giusto evitare la nostra integrazione, perché si andava oltre la macchina da presa. Comunque il rapporto è stato straordinario, anche con Fabrizio, ma dipende dai differenti caratteri: Sid è molto burbero, un bambino molto particolare che fa fatica ad aprirsi ma quando lo fa si apre veramente tanto. Per noi è stato straordinario.

GianLorenzo Franzì

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