AVIGNONE, IL PIÙ GRANDE TEATRO AL MONDO

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AVIGNONE – Raccontare Avignone, inteso come Festival, in un articolo di una rivista (sia pure online) è un po’ come tentare di imbottigliare il mare. Ma se un’analisi di ognuno dei millecinquecentoepassa singoli spettacoli andati in scena nei 24 giorni dell’Off (senza contare i 282 eventi dell’In, quello da cui tutto partì 73 anni fa) è impresa fuori dalle possibilità umane, qualcosa si può dire sull’impronta complessiva che questa edizione del ‘Plus grand marché du spectacle vivant’ (come lo chiamano Oltralpe) ha lasciato al mondo del teatro e al teatro del mondo. Sì, perché Avignon non è solo Francia. Dall’Italia, per esempio, sono approdati 16 spettacoli di diverse compagnie: da Torino, Bologna, Bari, Vicenza, Sanremo, Genova, Parma, Cremona e Milano. E così siamo risultati il quarto Paese per numero di eventi messi in scena, dopo i padroni di casa della Francia (e ci mancherebbe) e dopo altri due stati almeno parzialmente francofoni: Belgio e Svizzera. Una kermesse che non ha eguali nel pianeta, e che anche fuori dall’Europa, oggi, si comincia a vedere per quello che è: una grande opportunità, una vetrina da non mancare. L’edizione 2019 ha messo in luce la Cina come nuova grande protagonista, ma ha ospitato compagnie provenienti pure da Australia, Burkina Faso, Algeria, Canada, Stati Uniti, Hong Kong, Iran, Giappone, Messico, Taiwan e Russia.

L’ARTE DI SCEGLIERE

La difficoltà del giornalista, che è la stessa dello spettatore (occasionale o navigato), è quella di scegliere. Ma in fondo è pure un esercizio utile. Ché in fondo la vita, a scegliere, ti costringe spesso, pur senza sapere cosa c’è dall’altra parte della decisione. Così capita tra le mani l’indispensabile guida da 472 pagine, una specie di dizionario teatrale illustrato, e capita che si legga una presentazione aspettandosi con buona approssimazione un certo tipo di opera. Raramente ci si azzecca, la maggior parte delle volte le aspettative cadono dopo pochi minuti, sostituite dalla sorpresa di un nuovo stimolo. Accade spesso, in Provenza, di tornare a essere un po’ bambini e di guardare il palco con occhi vergini, emozionati, curiosi. E del resto dove potrebbe accadere se non qui, nel luogo dove prende forma una sorta di carnevale della vita? Scegliere, dunque, lo si lascia per lo più al caso, magari alla propria (residua) sensibilità o all’attrazione (leggi capacità di comprensione) per un idioma o per un altro. E allora inizialmente non si può che cascare sull’italiano, ancorché ben mescolato con un francese italianizzato e con uno spagnolo (volutamente) maccheronico. Loro sono ‘I Nuovi scalzi’, e lo spettacolo è ‘La ridiculosa commedia’.

L’ITALIA MIGLIORE

La regia di Claudio De Maglio e Savino Maria Italiano porta in vita la storia del contadino Friariello, di Pantalon De Borghia, un avido imprenditore edilizio, e del dottor Graiano d’Asti, un politico facile alla corruzione. Oltre che di Florenzia, figlia dell’imprenditore, che dopo molti anni in viaggio alla ricerca della propria libertà, è costretta a tornare a casa avendo terminato ogni risorsa economica. Il gioco del dialogo col pubblico, dei cambi di lingua, dei personaggi caricaturali, è intrigante e non cala mai d’intensità. Non a caso, lo show si è preso premi in serie in mezzo mondo, e ad Avignone già nel 2018 aveva fatto il pieno di pubblico e consensi. In più, stavolta, c’è una location particolare a fare la sua parte: siamo in uno spazio aperto (talmente ben curato che nemmeno il sole a picco riesce a infastidire), nell’accogliente ‘Cour des Platanes’, uno dei 139 luoghi dedicati al teatro in una città che si visita serenamente in mezza giornata. Come a dire che non si fanno 50 metri senza trovarne uno, di questi posti magici dove teatro e pubblico si mischiano diventando una cosa sola. L’Italia migliore che sfila in Provenza è anche quella del Magdaclan, del Tom Corradini, dello Zenhir, del Teatro Utile, dello Stabile del Veneto, del Teatro Necessario, del Teatro del Piccione, dello Stivalaccio, della Compagnia Fraternal o dei musicisti Guappecartò. Quintetto, quest’ultimo, nato come gruppo ‘di strada’ nel 2004 e poi capace di entrare nel mondo del cinema dalla porta principale, grazie all’innamoramento dell’attrice Madeleine Fischer.

NON SOLO TEATRO

Del resto la musica è parte fondante e fondamentale dello show avignonese, con una storia o senza a fare da contorno. Concetto espresso perfettamente dagli spettacoli su Patti Smith, su Beethoven, sulla magia del Flamenco, o più semplicemente dalla musica gentile di Christina Rosmini, ammaliante francese di origini italo-spagnole, che porta il suo ‘Tio’, omaggio intenso e sincero a Georges Brassens. Un classico della musica transalpina, o meglio della cultura occidentale. Come del resto spuntano i grandi classici di teatro e letteratura rivisti e corretti in chiave ogni volta diversa: ci sono un po’ tutti, da Victor Hugo a Pasolini, da George Sand a Marcel Proust, da Baudelaire a Gibran. Musica, teatro, ma non solo: ci sono danza, arti circensi, mimo, magia, poesia. Si comincia alle 7 di mattina, l’ultimo spettacolo serale è alle 23.45: una no-stop che non si ferma nemmeno lungo i viali e le stradine della città, tra gli artisti di strada che arrivano da ogni parte del mondo e gli attori che passano la giornata a promuovere la loro performance. Solo qui, solo ad Avignone, ti può capitare di mangiare a un tavolino e di essere avvicinato da un protagonista della commedia dell’arte che – rigorosamente in costume di scena – ti racconta almeno un paio di buoni motivi per cui sarebbe il caso di assistere al suo spettacolo.

IL FESTIVAL IN

Fin qui la parte Off, che all’inizio fu una specie di contorno. Perché in realtà Avignone nasce nel primo Dopoguerra (era il 1947) con la sezione ‘ufficiale’, quella che occupa i teatri migliori, i luoghi più capienti, quella che ospita gli artisti più prestigiosi. Una sezione quest’anno bersagliata dalle polemiche e dai giudizi severi della stampa francese rivolti al direttore Olivier Py e ai suoi compagni di avventura: scelte troppo smaccatamente politiche, si legge, e spettacoli in buona parte noiosi. Di certo non semplici, verrebbe da puntualizzare, non per tutti. Ma ci sono perle di valore assoluto. Come ‘Outwitting the Devil’, capolavoro firmato Akram Khan che incanta la corte del Palazzo dei Papi, sorvolando pure la sfortuna che mette al tappeto uno dei ballerini protagonisti, costretto a uscire in ambulanza dopo essersi rotto un piede (e poi sostituito per le rappresentazioni successive). O come ‘La Maison de thé’, ambizioso tentativo di Meng Jinghui, che con un lavoro di avanguardia rock, racconta il cambiamento della società cinese attraverso, appunto, le trasformazioni di una delle ‘case del tè’. Dopo due ore di uno show che ne prevede tre e spiccioli, molti spettatori preferiscono andarsene: troppo difficile reggere i monologhi in cinese (sottotitolati), troppo difficile aspettare di capire dove andrà a parare la storia. Eppure chi rimane viene premiato da un’ultima ora sublime, nei gesti, nelle parole, nella coreografia, in ciò che resta nelle mente e nell’anima. L’amaro in bocca è altrove: magari si palesa dopo aver visto ‘Granma. Les Trombones de la Havane’, lavoro documentaristico ben fatto sull’isola caraibica, ma lontano dal potersi definire una prova artistica. Documentario e teatro che invece convivono alla perfezione nel russo ‘Papa, Maman, Staline et moi’, sezione Off, prova attoriale di livello assoluto. Peccati veniali, in fondo. Chi va ad Avignone, ogni anno, non sa cosa aspettarsi ma sa come ne uscirà: più consapevole, più innamorato del teatro, dunque della vita.

Cristian Sonzogni

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