Trieste, Il Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Assicurazioni Generali, 3 dicembre 2019
Questa recensione esce con notevole ritardo rispetto alla visione dello spettacolo, andato in scena il 2 dicembre scorso al Politeama Rossetti di Trieste e di ciò si cerca ora di dar conto.
Si ha, a volte, la sensazione di aver assistito a un qualcosa dotato di più livelli di significato, non tutti immediatamente percepibili in modo diretto.
Si sente di aver bisogno di tempo per trovare le parole e riuscire ad esprimere in modo sufficientemente preciso ciò che si è visto, al di là dello strato più evidente, qualcosa che si intuisce essere ben presente nelle intenzioni di chi lo ha ideato e costruito, ma non del tutto esplicito, perché l’argomento trattato non può essere semplificato.
Carta e penna prendono il posto della tastiera, a testimonianza della necessità di un passaggio che imponga la lentezza, scandisca un tempo che aiuti la riflessione, uno strumento tecnologicamente meno avanzato per cogliere al meglio ciò che il paesaggio della messinscena offre alla vista.
“Kobane calling on stage” ci mette di fronte a una complessità notevole fin dall’idea originaria di mettere in scena un testo che sembra essere il rullino, la lastra fotografica di un’opera drammaturgica in un’epoca in cui l’elettronica ha fatto quasi scomparire anche l’idea del “negativo” delle foto, ciò che precede l’immagine catturata.
Il testo di partenza è infatti un romanzo a fumetti e le immagini sono più immediatamente recepite dal lettore; il testo viene dopo e con esse si integra aumentandone la profondità.
Ciò che solitamente si costruisce con la messinscena è perciò in larga misura già presente e si deve quindi procedere in senso inverso.
Tutto questo conferisce allo spettacolo un ritmo particolare, grazie all’adattamento di Nicola Zavagli, che ne firma anche la regia, e ai misurati rimandi a tavole tratte dal volume.
In scena gli attori si muovono in un mondo surreale nel quale si inseriscono personaggi immaginari, all’interno di ambientazioni idealmente descritte: il quartiere romano di Rebibbia si alterna a luoghi lontani, posti tra le quattro frontiere di Turchia, Iran, Iraq e Siria, entro le quali si distende il Kurdistan e in particolare il Rojava, nella parte siriana, Stato non riconosciuto fondato sul confederalismo democratico, il municipalismo libertario e l’ecologia sociale.
Definito una “democrazia senza Stato”, è dotato di una struttura flessibile, multiculturale; si basa sull’autonomia politica, il secolarismo, il femminismo, l’ecologismo.
Risultano evidenti i motivi alla base della volontà di annientamento di un’enclave di libertà e democrazia avanzata, da parte di un movimento oscurantista come lo Stato Islamico.
Sorprende, o almeno dovrebbe sorprendere di più la posizione occidentale, la sua formale vicinanza contrapposta a una reale indifferenza.
Ma probabilmente anche in questo c’è una logica.
Se estesa altrove, l’esperienza del Rojava di cui Kobane, con la sua resistenza è simbolo, appare come la realizzazione di un’utopia contemporanea luminosa, positiva, capace di risolvere in modo creativo e coinvolgente l’attuale crisi mondiale.
I giovani in scena, con la leggerezza data dalla combinazione tra la loro età e l’origine fumettistica del testo creato da Zerocalcare, riescono a mostrarci tutto questo.
Paola Pini