“La commedia della vanità” di Elias Canetti. “Un circo crudele, raffinato e opulento dove è vietato specchiarsi”

Data:

Piccolo Teatro Strehler dal 15 al 26 gennaio 2020

Claudio Longhi ha messo in scena uno spettacolo complesso e completo, ironico e grottesco, colorato e buio, magico e cabarettistico, dove filosofia, miti, simboli, paure, premonizioni, memorie, morte, vita, si esibiscono sulla pedana di una strano crudele circo, e come animali affamati ci guardano da dietro le sbarre di una gabbia, a volte riescono a scappare tra la folla seduta in platea ma un colpo di frusta del direttore (Fausto Russo Alesi) li ricaccia dentro, a leccarsi le ferite.

Il testo, scritto nel 1935 da Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1984, è una satira verso la vanità “una troia, ecco cos’è la vanità, una rozza, fetida troia!” e la stupidità umana, nessuno escluso, e una denuncia verso ogni forma di totalitarismo che, nel nome del popolo, si sporca le mani delle azioni più abbiette. O più stupide e inutili, come quella nell’opera dello scrittore bulgaro, di proibire l’uso e il possesso degli specchi: “AVVISO. Il governo ha deliberato. Primo: È vietato il possesso e l’uso di specchi. Tutti gli specchi esistenti, senza eccezione, saranno distrutti. La fabbricazione di qualsiasi tipo di specchi dovrà essere sospesa. Trascorso il termine di trenta giorni, chiunque venga trovato reo di possedere o usare uno specchio verrà punito con una pena da dodici a vent’anni di carcere. Per chi fabbrichi specchi è prevista la pena di morte”

Canetti usa la metafora degli specchi per raccontare la storia di un regime immaginario che vuole togliere di circolazione fotografie e ritratti, e tutto quello che può esaltare la vanità. La punizione per chi non ubbidisce sarà ovviamente la morte. Ma a che scopo? E perché gli specchi?

Scrive Canetti “Ciascuno di noi vive in stato coniugale con la propria immagine riflessa nello specchio. Quando mangiamo, è la nostra immagine che nutriamo; quando ci vestiamo, è la nostra immagine che vestiamo e anche quando siamo malati, infelici, ridotti a mal partito l’immagine ce la conserviamo sana. altrimenti la vita non ci riserverebbe più alcuna gioia”.

Senza specchi, senza quel nostro io dall’altra parte, è come restare vedovi, è come perdere una parte di noi, pur sapendo che in quel pezzo di vetro noi vediamo solo il nostro riflesso, vediamo la superficie e non la nostra essenza, non la nostra anima, non la nostra mente. Siamo tutti preoccupati che l’immagine con la quale ci mostriamo agli altri, sia il meglio di noi stessi. Viviamo per apparire e non per essere. C’inganniamo e inganniamo. Ne facciamo una ragione di vita, ma a volte questa ragione si trasforma nel suo contrario, come succede nella “Commedia della vanità” dove gli esseri umani, privati di quegli espedienti che rimandano la loro immagine o ricordano i loro volti, si riducono a dei burattini in cattività, e sarebbero disposti a tutto per una scheggia di specchio dove ritrovarsi di nuovo, dove sentirsi vivi.

Il mito più antico e popolare dello specchio è legato a Narciso che annegò guardando la propria immagine in una pozza di acqua, e da qui è nato il narcisismo, che, soprattutto al giorno d’oggi, per quell’incontrollato proliferare d’immagini (come se vivessimo tutti dentro a un enorme caleidoscopio) che si espandono, si moltiplicano, rimbalzano, ritornano, generano altre immagini, sembra avere raggiunto la sua apoteosi. Ma come dice il proverbio, chi più in alto sale… e quindi dobbiamo forse aspettarci, come ha “predetto” Canetti, che un “direttore” autoritario prima o poi ci vieti l’uso degli specchi, delle fotografie, dei selfie, fino a oscurare i social e tutti i canali che succhiano le nostre immagini come tante sanguisughe?

Mi specchio quindi sono. Non mi specchio quindi muoio, languisco, ho paura di non essere più me stesso.

Un testo geniale molto moderno che il regista non ha sentito, per fortuna, il bisogno di attualizzare, e senza intaccarne la struttura drammaturgica, ha ridotto quello originario di sette ore a tre e mezzo circa. Ma ovviamente alcuni interventi sono stati fatti come quello di unire, come tre facce della stessa medaglia, tre diversi stadi di evoluzione del potere, perciò Fausto Russo Alesi interpreta Barloch, Fӧhn e Garaus, l’imballatore, un borghese, il direttore/imbonitore. E come un gioco di specchi, fa altrettanto con le tre figure femminili di Anna Barloch, Louise e Leda Frisch, rispettivamente la moglie dell’imballatore, l’infermiera e la borghese, interpretate da Aglaia Pappas.

Uno spettacolo geniale diviso in tre capitoli, il primo più vicino allo spirito e alle scene del cabaret tedesco espressionista, dove la risata è spesso seguita da un pensiero di morte, il secondo è quasi un dramma borghese, molto bello il dialogo fra Aglaia Pappas e Russo Alesi nei panni dei due coniugi, il terzo è la decadenza assoluta, la follia, la malattia, la distruzione, allegro come un funerale, triste come un matrimonio… al suono di un violino e di un cymbalon che ritmano l’azione.

Longhi poteva cascare facilmente nella trappola di usare il testo per farne una satira dei giorni d’oggi, sfruttando social e compagnia cantante, invece quel circo immaginario, che sembra bruciare all’inferno grazie a sapienti giochi di luce e scenografie immaginifiche, ci ricorda tanti capolavori del passato da Metropolis di Lang ai Freaks di Browning, a Murnau, a Ophüls, ai quadri espressionisti, per non parlare dei costumi ispirati anch’essi agli anni trenta ma con una straordinaria originalità e opulenta raffinatezza, se mai le due cose possano coesistere. Sì possono, molto bene, qui, perché lo spettacolo è ricco, stravagante, lussuoso e lussurioso, visivamente splendido, niente è stato fatto in economia, e si vede, si sente, gli attori bravissimi, tutti quanti, tanti, cantano e ballano, e agiscono anche tra il pubblico e noi spettatori ci sentiamo trasportati in questo circo folle e assurdo dove della vanità se ne fa un gran falò e la si lascia bruciare all’inferno. E noi tutti, insieme a lei.

E a fine spettacolo sarebbe bello farsi un selfie con tutta la compagnia… ma non ce lo permettono. 

Daria D.

La commedia della vanità
di Elias Canetti
Regia di Claudio Longhi
traduzione di Bianca Zagari
scene Guia Buzzi, costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini, video Riccardo Frati
traduzione di Bianca Zagari
con Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
e con Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti, Oreste Leone Campagner,
Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile,
Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana
violino Renata Lackó, cimbalom Sándor Radics
drammaturgo assistente Matteo Salimbeni
assistente alla regia Elia Dal Maso
preparazione al canto Cristina Renzetti
trucco e acconciature Nicole Tomaini
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
nell’ambito del progetto “Elias Canetti. Il secolo preso alla gola”

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