Play Time – Tempo di divertimento (Playtime)

Data:

FRANCIA  1967  118′  COLORE
REGIA: JACQUES TATI
INTERPRETI: JACQUES TATI, BARBARA DENNEK, LEON DOYEN
VERSIONE DVD: SI’, edizione RIPLEY’S HOME VIDEO

In una Parigi caotica e futuribile, Monsieur Hulot vive alcune esperienze di ordinaria follia cittadina: si perde in un labirintico palazzone di uffici nel vano tentativo di incontrare un funzionario; visita una fiera di invenzioni a dir poco surreali (come la scopa elettrica munita di fari); invitato da un amico, è ospite in un appartamento tanto avveniristico quanto privo di riservatezza; partecipa alla catastrofica inaugurazione di un locale di lusso, il “Royal Garden”, all’interno del quale fa amicizia con la giovane turista americana Barbara; prima che entrambi si perdano nel caos del traffico, riesce a far avere a Barbara un piccolo regalo d’addio.

Dopo l’Oscar per il Miglior film straniero vinto con Mio zio nel 1959 l’attore, regista e mimo Jacques Tatischeff (1905-1982), qui al suo quarto lungometraggio, torna a vestire gli inconfondibili panni (cappello, impermeabile, ombrello in mano e pipa in bocca) dello stralunato, goffo e tenero Monsieur Hulot, personaggio apparso per la prima volta in Le vacanze di Monsieur Hulot (1953) e chiaramente ispirato ai grandi comici del periodo muto, come Chaplin e Keaton: Hulot si esprime principalmente con i gesti, parla poco e, quando lo fa, più che altro borbotta in maniera quasi incomprensibile.

Play Time è senza dubbio l’opera più ambiziosa ed estrema della breve filmografia di Tati (solo sei lungometraggi), e probabilmente anche il suo capolavoro, affascinante nella sua disomogeneità e fragilità. Un film “maledetto”, il cui difficoltoso e ostinato completamento – ben tre anni di lavorazione, caratterizzati da problemi vari e ripetuti sforamenti di budget – ha portato il regista sull’orlo del fallimento, soprattutto a causa degli astronomici costi sostenuti per la realizzazione di “Tativille”, la gigantesca città/set che appare nel film, concepita per diventare un centro di produzione cinematografica, poi mai realizzato: un colossale sogno incompiuto, fatale per la prosecuzione della sua carriera. A tutto ciò va aggiunto il fatto che tanti sforzi non hanno ricevuto il premio che meritavano: Play Time all’epoca si è rivelato un enorme fiasco commerciale.

Senza una trama né un vero e proprio protagonista (Hulot appare e scompare più volte nel corso del film, e anche quando presente si trova non di rado ai margini delle inquadrature), riducendo i dialoghi e gli eventi all’osso, con Play Time Tati prosegue il suo discorso di critica della società moderna, già evidente in Mio Zio, ricorrendo alla sua tipica comicità visiva – in puro stile slapstick – delicata e in punta di piedi per mostrare la problematica condizione dell’uomo moderno, con tutte le sue fragilità e i suoi tic, e smontare il mito del Progresso. Nella Parigi/Tativille fredda e asettica immaginata dal regista, dove a dominare è il colore grigio dei palazzi di cemento, acciaio e vetro, le persone si comportano come automi, non riescono a comunicare tra loro, né a socializzare. L’ordine che regola le loro esistenze, apparentemente necessario, si rivela in realtà opprimente e disumano, e la tecnologia, anziché semplificare la vita, la rende più difficile. In questo scenario inquietante Hulot, commovente presenza umana tra gli automi che lo circondano, è un elemento spurio, un corpo estraneo la cui andatura ciondolante e incerta ne esprime il comprensibile disorientamento, oltre che l’involontaria e inconsapevole carica sovversiva: il suo vagare, apparentemente senza una meta né uno scopo – che lo stesso Tati ha paragonato a quello dei cani, che si muovono fiutando qua e là senza seguire una direzione chiara -, stona con quello dei suoi simili (?), che invece seguono diligentemente il “programma”. Ma è proprio l’umanità – che significa sentimenti, ma anche imprevedibilità e fallibilità – di Hulot che scompagina il copione di quel programma e demolisce l’illusione del Controllo, come si vede bene nella spassosa sequenza del ristorante (demolito anch’esso…), senza dubbio il momento più comico e accessibile di tutto il film, che ispirerà, tra l’altro, il capolavoro di Blake Edwards Hollywood Party, uscito l’anno successivo.

La “vecchia Parigi”, cioè quella della vita prima del Progresso, compare soltanto nei riflessi dei suoi celebri monumenti (come la Torre Eiffel e l’Arco di Trionfo) che animano fuggevolmente le tristi vetrate dei palazzi, ed è rievocata con nostalgia dalle dolci melodie di Francis Lemarque. L’unico elemento di colore che spezza il grigiore generale è un altro residuo del passato: la bancarella di un’anziana fioraia, che per i turisti rappresenta una curiosa cartolina folcloristica da immortalare e portare a casa…

Play Time è un film che – proprio come Hulot – parla poco, preferendo esprimersi piuttosto per immagini, oltre che attraverso i rumori e i silenzi; per raggiungere lo scopo Tati utilizza soluzioni tecniche sperimentali e di grande complessità. Per quanto riguarda le immagini, per la loro perfetta sincronizzazione sono sbalorditive le lunghe inquadrature fisse in campo lungo – vero e proprio marchio di fabbrica del cinema di Tati – in cui si verificano contemporaneamente tante piccole situazioni, non necessariamente importanti, che mettono a dura prova la capacità di osservazione dello spettatore e ne acuiscono il senso di straniamento. Anche l’originale utilizzo del sonoro – realizzato con un’avveniristica, per i tempi, colonna sonora stereofonica a 5 canali -, con i rumori di fondo della città che spesso coprono i dialoghi tra le persone, è finalizzato ad amplificare la sensazione di smarrimento in chi assiste.

Soltanto ad un analisi superficiale e riduttiva Play Time potrebbe apparire, semplicemente, come un bizzarro film comico mentre, per quanto detto finora, sarebbe giusto considerarlo anche – se non soprattutto – un’opera di fantascienza distopica che affronta tematiche universali della sfera umana quali l’alienazione, l’incomunicabilità, il ruolo della tecnologia e l’impatto del capitalismo nella società contemporanea. Pur scegliendo la strada dell’ironia e della poesia Tati, da acuto osservatore della realtà che lo circonda, opera una dura critica della modernità, e attraverso il suo alter ego Hulot dichiara la propria alterità rispetto al pensiero dominante. Che è poi quello legato ai concetti di “progresso”, “utile”, “profitto”, “efficienza”, e via elencando… La bellissima sequenza finale, che inizia con la giostra delle automobili che girano in cerchio al ritmo di un motivetto circense, esprime meglio di mille parole quanto Tati ritenesse assurda una vita basata su tali “valori”. Play Time è la profetica visione del futuro operata da un uomo che ha mostrato ai suoi contemporanei, con “appena” qualche decennio di anticipo, come sarebbero (saremmo) diventati…

 Di Play Time esistono varie versioni che differiscono per la durata (in origine di circa due ore e mezza, poi ridotte dallo stesso Tati a due ore circa); dopo un primo restauro del film risalente al 2002, nel 2014 ne è stata realizzata un’edizione digitale in 4K.

Il cinema di Tati somiglia solo a sé stesso, e non è per tutti i gusti: la complessità della sintassi e la sottile comicità, tutt’altro che immediata, con gag spesso solo accennate e momenti nonsense, lo rendono ostico, se non inaccessibile, per lo spettatore occasionale; al contrario, per essere apprezzato richiede grande concentrazione e sensibilità, ma anche pazienza e insistenza (lo stesso Play Time è uno di quei film che va rivisto almeno una volta per poter essere compreso in tutta la sua grandezza), doti che si possono affinare solo con un’abituale frequentazione del Cinema d’Autore, ambito nel quale le opere di Tati rientrano al massimo livello.

Francesco Vignaroli

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