Una “Carmen”. Sensualità gitana al Bellini di Catania

Data:

Al Teatro Bellini di Catania, dal 25 febbraio al 3 marzo 2020

L’opera ai tempi del COVIS-19 sfocia in platee deserte, spettacoli sospesi, con danni per milioni di euro che mettono a rischio un comparto già fragile, eppure l’unica febbre che ha fortunatamente imperversato a Catania, in questi giorni, è stata per la caccia al biglietto della “Carmen” di Bizet, opera con la quale il Massimo Bellini ha inaugurato martedì sera il nuovo cartellone. Repliche sold out, per ogni ordine di posto e data, recita un cartello davanti al botteghino, ciononostante la sera della prima più di un posto, in sala e nei palchi, era vuoto con buona pace dei tanti che fino all’ultimo hanno sperato di accaparrarsene uno senza riuscirci.
POTERE ALLA MUSICA La scelta di eseguire il preludio a sipario chiuso riporta al centro l’Orchestra del TMB energicamente diretta da Fabrizio Maria Carminati, neo direttore artistico dell’Ente etneo, che sul podio padroneggia la bacchetta con grande rigore e trasporto. Il ritmo è serrato, c’è grande rispetto della partitura e un’accuratezza nei passaggi che esalta al meglio le sezioni di fiati e archi sui temi principali: quello del fiore e quello della morte. Questa Carmen 2020 realizzata in co-produzione con il Teatro Massimo di Palermo, dettaglio di non poco conto che ancora una volta rimarca l’esigenza di sinergie fra i teatri dell’isola, viene portata in scena con i consueti recitativi scritti da Ernest Guiraud per l’Opera di Vienna. Il terribile fiasco del debutto parigino, avvenuto nel 1875, e la prematura dipartita di Georges Bizet convinsero l’amico a modificare l’opéra-comique, anche a scapito della narrazione, pur di rendere “Carmen” più immediata facendo passare in secondo piano la truce vicenda.
CARMEN 2020 Alla regia troviamo Luca Verdone, che torna a inaugurare la stagione del Bellini dopo “Un ballo in maschera” del 2013. Non ci sono idee particolarmente forti a sorreggere l’intero impianto, manca anche l’impeto creativo -ad eccezione delle scene firmate dallo stesso su un progetto di Virginia Vianello- figlie comunque di un teatro d’antan. A prevalere, infatti, è la pittura e la bidimensionalità su cui dominano i suggestivi fondali del light designer Franco Buzzanca, irradiati da tinte crepuscolari e intense sfumature calde. La presenza sul palcoscenico di coro e solisti è lasciata all’improvvisazione e sfocia in assembramenti, talvolta caotici altri statici, che privano di bellezza l’insieme ma soprattutto appiattiscono il vigore di alcuni passaggi, un esempio su tutti la rissa delle sigaraie. A poco vale l’inserimento di un piccolo corpo di ballo diretto da Giusy Vittorino dalle movenze blande la cui presenza all’interno della narrazione non è sempre chiara se non per conferire dinamicità.
SEVILLA Tre i luoghi deputati alla storia: nel I atto c’è una piazza andalusa restituita dalle pareti di due edifici su una delle quali si trova un imponente cancello e alla quale si aggiungono logori tendoni e alcuni tavoli per riprodurre, nel II atto, la taverna di Lillas Pastia. Pannelli su cui trionfano rocce stilizzate a riprodurre il covo dei contrabbandieri per il III e l’imponente arco trilobato della Plaza de Toros, nell’ultimo. I costumi di Alberto Spiazzi presentano alcuni pezzi di buona fattura, come la gonna con volant e il bustino broccato di Carmen o l’abito nero con corsetto in raso e mantilla di pizzo dell’ultimo atto, il capote de paseo di Escamillo impreziosito da ricami o il Traje de Luces con la scintillante passamaneria nella chaquetilla. Per il resto l’abuso di sfumature di rosso fra scialli, fiori e gonne oltre alle camicie, una arancione l’altra fucsia di Mercédès e Frasquita, contribuiscono a creare un effetto ottico dissonante. Per i banditi invece si è optato per ponci messicani arricchiti di linee e bei colori mentre durante la corrida si assiste a un carnevale di costumi, indossati dai più piccoli, e a alla presenza della maschera campana per eccellenza, Pulcinella. Sì, proprio lei che apre interrogativi sulla lettura filologica del testo tanto decantata da Verdone.
CAST Sensualità glaciale e composta per la Carmen di Anastasia Boldyreva, il mezzosoprano russo conferisce alla gitana una complessa dimensione introspettiva rendendola consapevole della fatalità e delle circostanze che alla fine la vedranno unica vittima. Un po’ fattucchiera riesce con un potente sortilegio d’amore, qui rappresentato dalla bella trovata di un delicato soffio su un fiore ceruleo, a ipnotizzare Don Josè che alla fine della “Près des remparts de Séville” è completamente nelle sue mani. Per quanto il sergente cerchi di respingerla, la sigaraia lo irretisce al punto da farlo unire ai fuorilegge dopo la magnetica danza con le nacchere, suonate dalla stessa cantante. La Boldyreva oltre a possedere il physique du rôle ha un bel timbro scuro, autenticamente mezzosopranile, con il quale raggiunge ottimi acuti arricchendo, tra recitazione e canto, la sua performance. Gaston Rivero è un Don Josè imbrigliato nel senso di responsabilità che lo lega alla madre, la quale solo sul letto di morte gli perdonerà tutti i peccati, ma anche verso Micaëla che con dolcezza potrebbe accompagnarlo in un percorso di rettitudine, ad avere la meglio, però è il bruciante trasporto per Carmen grazie al quale verrà fuori la sua vera natura. Dalla novella di Mérimée e dai dialoghi dell’opéra-comique sappiamo, infatti, che il personaggio di Don Josè ha un passato turbolento alle spalle, in una rissa a Navarra uccise brutalmente un uomo, circostanza che lo costrinse a fuggire a Siviglia. Tenore dal fraseggio fiero e ispirato, con una vocalità di tutto rispetto che gli permette di arrivare con un suono rotondo nelle parti acute senza perdere terreno nel registro medio, Rivero ha anche una bella presenza scenica. Peccato solo per il finale nel quale anticipando l’uscita del coltello smorza il raggiungimento del climax. Ottimo contraltare è l’Escamillo di Simone Alberghini dalla generosa voce baritonale, ben in maschera, pulito nelle agilità e dotato di grande musicalità e senso del teatro. In splendida forma il soprano Daniela Schillaci, non solo per l’impeccabile pronuncia francese ma anche per la bellissima pasta vocale e lo spettro dinamico. La sua Micaëla è una donna reale lontana da una sagoma timida e impacciata, che con coraggio raggiunge il suo amato per offrirgli conforto e sostegno eppure non lesina lirismo nello struggente duetto “Parle-moi de ma mère!” prima e nell’aria “Je dis que rien ne m’épouvante” poi. Filippo Lunetta (Dancaïre) e Anna Delfino (Frasquita) sostengono la parte in maniera discreta senza brillare particolarmente, mentre si distinguono per emissione sia la Mercédès del mezzosoprano Albane Carrère sia il Remendado di Saverio Pugliese. A completare degnamente il cast c’è anche il basso Gaetano Triscari nei panni dell’autoritario e lascivo tenente Zuniga mentre il Moralès di Claudio Mannino mostra asperità nelle emissioni e parecchie frasi slegate e mozze. Offrono poi un valido contributo il Coro del Massimo Bellini, diretto come sempre dall’infaticabile Luigi Petrozziello, il quale ha fatto un grande lavoro sulle tessiture vocali soprattutto nella sezione maschile, e il preciso e inappuntabile Coro di Voci bianche “Vincenzo Bellini” di Daniela Giambra. Lunghi e meritati applausi a scena aperta hanno accolto gli artisti e le maestranze per una prima all’insegna del successo e della musica di qualità.

Laura Cavallaro

Foto Giacomo Orlando

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