TRE PELLICOLE CARDINE DI DAVID LYNCH. Di Massimo Triolo

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Partiremo per questo viaggio attraverso tre declinazioni registiche del talento e dello spessore del cinema di David Lynch, con un film assai controverso: Blue Velvet (1986). A metà tra fiaba macabra e racconto di formazione, Velluto blu è un sorprendente esempio di noir visionario in cui a contare davvero non è la fabula, in questo caso perfettamente coincidente con l’intreccio, ma l’atmosfera, le pennellate antropologiche, la suggestione di un perverso che fatalmente alligna appena sotto l’apparenza di una vita liliale, innocente e ordinaria. Lynch sembra suggerire che a uno sguardo più attento e indagatore – espresso più volte nella pellicola col dispositivo diegetico e estetico (qui nel significato di sensoriale) del passaggio da macro a micro attraverso lo zoom –, a un tale sguardo non sfugge che anche là dove tutto suggerisce armonia e sentimenti benevoli, il male attecchisce e regna nascostamente, nelle viscere, nel profondo, nelle pieghe nascoste della realtà, e sarebbe meglio rimanesse incognito anziché venire in superficie, esattamente come il perturbante freudiano. Questo il filo rosso fin dall’avvio del film in cui sfilano immagini da pubblicistica patinata (aiuole fiorite e staccionate di un familiare, onesto bianco, case modello, vite modello), in una sequenza interrotta in maniera ossimorica da una tragedia domestica, che passa il testimone visivo al manto erboso, elegante e curato, fino a condurre lo sguardo sotto e oltre esso, all’humus nascosto e brulicante di creature striscianti. In una sua intervista Lynch dichiara con semplicità: «Esiste sempre una superficie, e qualcosa di completamente diverso che si svolge al di sotto, come degli elettroni che si agitano in tutte le direzioni senza che noi possiamo vederli. Questa è una delle cose che fanno i film: ti mostrano quel conflitto». E quello stesso conflitto emerge anche dal riferimento all’arte che il regista opera dipingendo il proprio film: “un incrocio tra Bosh e Rockwell”. Mentre tutti conoscono le visionarie e inquietanti rappresentazioni di Bosch, non tutti conoscono il realismo romantico di Rockwell, raffigurante ambienti domestici e tranquilli, proprio mentre il mondo avanzava verso la rovina della guerra, e riflettente la vita quotidiana della piccola provincia americana, come fosse un eden sospeso nel tempo, in cui nulla di male sembrava poter accadere. Si facciano di conseguenza le dovute conclusioni sulla commistione degli eterogenei elementi che suggeriscono le due diverse forme di arte citate da Lynch.

La curiosità di Jeffrey, il protagonista, è il vero motore degli sviluppi di tutto il film. Egli non riesce a sopprimerla neanche per un istante, dal momento fatidico in cui rinviene fortuitamente un orecchio mozzato: macabro indizio e proscenio di un’avventura volta al disvelamento di trame nascoste e torbide destinate a cambiare la vita di questo ragazzotto perbene contaminandone l’innocenza non ancora compromessa con alcun vizio o depravazione. A livello metaforico, come la Pandora del mito greco, egli scoperchia il vaso omonimo – il richiamo al mito greco, nelle nostre intenzioni, ha punti di tangenza con quello biblico della vicenda adamitica relativa alla perdita dell’innocenza e all’attribuzione al genere umano del suggello del male e della sofferenza – e scoperchiandolo libera forze ferali relative agli elementi che il regista stesso rintraccia nell’amore, nell’odio, l’omicidio, la perversione, la corruzione e la degradazione. La matrice del discorso di Lynch ha qualcosa di manicheo (non nel senso invalso, ma nel senso originario del termine) nel mettere in scena niente altro che il potente legame tra Bene e Male, secondo una visione che programmaticamente li presenta compenetrati l’uno nell’altro; essi non hanno niente di originario e ontologico, per così dire, non sono due sostanze separate, ma l’uno il volto dell’altro. Sembra voler affermare, il regista, che non possano sussistere separatamente, che per comprendere il valore del Bene, infine, si ha da attraversare e esperire un sentiero lastricato di ostacoli e devianze tali da invocare una forma di riscatto e un’attribuzione definitiva di senso al Bene stesso – ma in via derivativa, mediata, attraverso la conoscenza di ciò che sembra fatalmente negare il suo statuto di esistenza… Non v’è luce ai piedi del faro, recita il famoso detto, così la vita monda e sana del protagonista non può appercepirsi tale, in tutto il suo valore, se non in modo erratico, lontano (allontanandosi) dalla sua stessa sorgiva fonte. Indubbiamente, la questione del profondo intreccio archetipico di Bene e Male, sarebbe immediatamente archiviata, se il Male non avesse un suo fascino luciferino: la Bellezza non è prerogativa di ciò che è virginale, intatto, non corrotto, ma alberga anche in forma luciferina, appunto, là dove l’Apollineo (luce, canone dell’armonia) cede il passo al dionisiaco, e il dionisiaco è tale da esercitare un richiamo atavico e cogente. La protagonista femminile, Dorothy (Isabella Rossellini), è la negazione del Principio del Piacere freudiano: un perfetto esempio di sadomasochismo frutto di una libido insana, aggressiva anche quando apparentemente passiva (ogni forma di masochismo è prima di tutto una declinazione di sadismo esercitato su se stessi). Citando Freud: «La caratteristica più sorprendente di questa perversione risiede però nel fatto che di regola se ne incontra la forma attiva e passiva nella stessa persona. Chi prova piacere a infliggere dolore agli altri in relazioni sessuali è anche capace di godere il dolore come un piacere che da queste può derivare. Un sadico è sempre in pari tempo anche un masochista, sebbene l’aspetto attivo o quello passivo della perversione possa essere in lui più fortemente sviluppato e costituire la sua attività sessuale prevalente». (Tre saggi sulla vita sessuale, 1905, Primo saggio: Le aberrazioni sessuali, Opere, Vol. 4).

La parola chiave di quel mondo occulto e deviato è “violenza”, e pare che in esso non possa sussistere nessuna forma di piacere senza di essa: tutti i personaggi che lo abitano ne sono succubi, sono vittime di questa invertita forma di amore ancora prima che carnefici. Non sorprenderà a questo proposito che l’origine eziologica delle devianze sadomasochistiche risiede spesso nel senso di colpa: e cos’è esso se non un imprinting ontogenetico, un apportato della formazione dell’individuo, che ne detta, per così dire, il destino affettivo? Lo stesso Frank (un magistrale Denis Hopper), uno dei personaggi più raggelanti tra i maniaci omicidi della storia del cinema, non viene descritto da Lynch come malvagio in senso stretto, quanto deviato: «Frank è totalmente innamorato. È solo che non sa come dimostrarlo. Sarà anche in preda a passioni strane (sesso sadico con ruoli incestuosi, omicidi, sventramenti, inalazione di Elio, spaccio di droga e omosessualità latente, solo per citarne alcune), ma è pur sempre animato da sentimenti positivi…» E conclude il regista: «Velluto Blu è una storia d’amore». Ma va detto che in quella tetra parata di personaggi corrotti che il film offre, non esiste nessuna traccia di amore oblativo, realmente dativo: in questo senso essi sono incapaci di amare nel senso vero della parola, perché il loro oggetto del desiderio non è l’Altro in quanto fine, ma in quanto mezzo attraverso il quale inverare l’inflizione del dolore e ogni forma di umiliazione. Il fascino del male, quello che Poe chiamava Demone della perversità è ben espresso dalle parole stesse del regista: «La gente si caccia in ogni genere di situazione strane e, per quanto possa sembrare incredibile, ci prova gusto. Potrebbe triarsene fuori, ma non lo fa, per un sacco di motivi che appartengono alla psichiatria».

Il viaggio di Jeffrey verso l’inferno, fortunatamente non è un viaggio di sola andata. Somiglia a quello che compiono gli artisti nel mettere in scena, attraverso le loro opere, deviazioni e corruzione: la sola differenza rispetto ai casi psicopatologici che le sperimentano su di sé, è che gli artisti hanno il privilegio di poter compiere un viaggio, nelle zone del perverso, di andata e ritorno. Lynch ha fatto e fa ancora, magistralmente, niente altro che questo.

Compiamo un salto indietro fino al secondo cimento registico di Lynch dopo il delirante Eeraserhead. Con Elephant Man (1981) siamo fin da subito nella Londra cupa, rumorosa, della Rivoluzione Industriale, dove la caligine del cook e dei molti macchinari a vapore intorbida l’aria e vela il cielo… Pistoni, cilindri, componenti meccaniche e combustioni in perenne ansimante e sbuffante attività… Nella suggestiva fotografia in bianco e nero curata da Fred Francis, si assiste a contrasti forti di ombre e luci e quasi a una lotta delle une per prevalere sulle altre. Dice Lynch in un’intervista: «… Per me è stata una delizia lavorare in bianco e nero; ho una mia teoria balorda sulle storie ambientate nell’epoca vittoriana: siccome quella è stata davvero l’alba dell’era fotografica, credo fermamente che un pubblico che vede un film vittoriano con la fotografia in bianco e nero la accetti inconsciamente come l’atmosfera originale».

Già dall’incipit sembra di essere in un romanzo di Dickens o la Londra dolente descritta da Blake nella poesia omonima. È una società già incipientemente capitalistica ma nella visuale del regista estranea all’entusiasmo del celeberrimo teorico Adam Smith – coevo della storia narrata nella pellicola – il quale identificava la ricerca dell’interesse economico personale con il bene pubblico. Piuttosto, però, che a una rappresentazione impietosa del capitalismo alla Grosz (la quale si sarebbe affacciata artisticamente solo pochi decenni dopo l’epoca descritta nel film), zone della pellicola apparentemente votate ad un grottesco macabro e crudele – come la danza sfrenata da carosello in cui tutto sembra girare vorticosamente su dei cardini impazziti, e in cui gli operai fanno ubriacare forzosamente il protagonista deforme che vedono come un fenomeno da baraccone da umiliare –, fanno pensare al degrado della classe operaia come descritto in Martin Eden di Jack London, un degrado figlio del sequestro di corpi e anime operato dal capitalismo nel quadro del lavoro salariato, al quale segue, dopo il duro e alienante lavoro di una settimana, la deriva della dipendenza da alcol, vero anestetico sociale delle coscienze, e di tutti quegli usi bruti tipici di una classe che non può permettersi un’istruzione né riscattare una coscienza sociale. Il film (di un registro più classico e composto di molti altri lavori di Lynch) sembra seguire fin dai primi snodi, un filo rosso rousseauiano: il protagonista, Joseph Merrik (interpretato da un intenso John Hurt che si affida all’espressività della voce piuttosto che alla maschera del viso per evidenti ragioni di trucco), è in fondo un selvaggio cresciuto senza nessuna guida e allo stato brado, ma ha un’innata bontà e un’intelligenza viva; un po’ come il Caspar Auser di Herzog. Un filantropo benestante di nome Treves si imbatte in lui visitando un circo che è stata la sua sola, crudele e cinica famiglia: esposto al ludibrio del pubblico come uno scherzo della natura il cui volto terrifica, viene riscattato per una somma di denaro dal gentiluomo che vuole offrirgli una seconda vita. Viene istruito e vestito elegantemente come un dandy di città, incontra spiriti liberali dell’alta società che lo vezzeggiano e sostengono, e apprende tutto molto in fretta mostrando attitudini fuori dal comune… Ma viene da chiedersi: non è ora, egli stesso, un nuovo fenomeno per il voyeurismo libertario della classe agiata? Egli, in effetti, sembra evaso da una gabbia lercia per entrare in una dorata che detta nuove regole ma non offre schietta umanità e empatia, comprensione per il suo spirito angelico e ferito dall’ignoranza e bestialità degli uomini, la sua profonda solitudine e tristezza; e così la sua presenza è di nuovo esibita: paradigma sociale buono per un pezzo sul giornale che faccia sensazione e dia lustro a chi lo accoglie fino in seno all’alta società. Va però precisato che Lynch sembra non voler sottolineare questo aspetto, quanto la reale filantropia di spiriti eletti appartenenti alla classe alta, e in questo resta forse un po’ schematico: proponendo una sorta di dicotomia tra benestanti e proletari, per il verso di una celebrazione della sensibilità dei primi e messa in scena della rozzezza e cattiveria belluina dei secondi.

Ciononostante è una parabola tristissima quella che imbastisce Lynch, e in cui l’uomo comune è crudele e deforme nell’anima, nelle sue pieghe nascoste e non sintomatiche, proprio come sembra dire Coleridge nella sua poetica, anche se stavolta il gabbiano è l’uomo elefante; ci piace pensare che Lynch abbia suggerito anche, seppur velatamente, che Merrik sia doppiamente vittima, cioè vittima anche, seppure ingenuamente grata, di un mondo che celebra l’apparenza, barbaro anche quando evoluto, nemico di una condizione più evoluta della ricerca di un pedissequo riflesso sullo specchio delle brame gesuitiche dei benpensanti. E ciò nonostante il filantropo Treves (interpretato da un misurato Anthony Hopkins) resta una figura positiva, mossa da reale gentilezza d’animo e sincera benevolenza nei confronti della creatura sensibile e sfortunata dal volto di mostro e dal cuore angelico, un cuore non intossicato dalle scorie di una civiltà sempre più artificiale e disumana, negatrice di sentimenti di solidarietà e empatia, scevra di una reale evoluzione di pensiero laddove i diseredati, i poveri, l’altra faccia della civilissima Londra, sono altrettanti freaks ma senza un’occasione di riscatto. Joseph è sinceramente grato a Treves, e in uno dei momenti più toccanti del film gli si rivolge dicendo di essere felice ogni giorno, ringraziandolo e aggiungendo che non avrebbe potuto nemmeno dimostrargli a parole la sua gratitudine se non fosse stato per la sua ala protettrice.

V’è anche un’altra figura assai positiva nel film, la signora Kendall, vera benefattrice d’alto rango e sensibile amica del protagonista. Dopo aver assistito entusiasta ad uno spettacolo teatrale fantasmagorico – che sembra preludere alla magia del cinema – la vede alzarsi e raggiungere il palco per incitare il pubblico ad applaudire Merrik, considerato ospite d’onore. Merrik, col suo cuore da sognatore, inebriato dallo spettacolo teatrale e colmo di appagamento per sentirsi finalmente accettato, decide di abbandonarsi a una morte per soffocamento, togliendo dal proprio letto i molti guanciali adibiti a sopportare il peso della sua enorme testa e muore sereno col viatico di quel picco di felicità che probabilmente sa non potersi ripetere in modo così magico e lustrale. Merrik sembra spegnersi accompagnato dalla visione della propria perduta e amata madre che pronuncia le parole: «Niente muore». E niente muore davvero se puro e in armonia con il creato.

Conduciamoci adesso al 1999: con Una Storia Vera (A Straight Story in inglese: che richiama l’idea di qualcosa che è diretto o corre a dritto) un Lynch già pienamente maturo e rifinito regista realizza un film anomalo all’interno della sua filmografia, mai così diretto appunto e certamente fuori dai canoni hollywoodiani e per andamento diegetico (un road movie dai tempi dilatati, lenti, riflessivi, senza avvicendamenti di trama volti a stupire con facili effetti o con un’azione incalzante) e per costruzione della storia, che ha un impianto robustamente classico e composto; una storia che se fosse scritta potremmo definire portatrice di uno stile naturalistico, improntato a un realismo sobrio e efficace. Parlavamo della sceneggiatura: essa è fatta di dialoghi suggestivi e potenti, significativi e pregnanti dal lato umano, espressi in semplicità ma non senza una profonda saggezza, privilegio di un’età avanzata, quella del protagonista, che alla fragilità del corpo oppone una robustezza morale e una lunga esperienza di vita che parlano la lingua della verità in modo diretto e succinto; senza mai girare a vuoto e facendo centro nel bersaglio di un senso più alto dell’esistenza che non quello dei tempi convulsi e rapidi della produttività assurta a mito laico, dei piaceri facili e precotti e di un intrattenimento vissuto passivamente cui sono abituati soprattutto i più giovani (in senso filmico e metafilmico); nonché estraneo, infine, a una simultaneità assoluta degli eventi, oramai ampiamente veicolata dagli omologanti e fulminei mezzi di comunicazione di massa. Se la prende comoda Lynch, sottolinea il paesaggio a volo d’aquila, quasi a rimarcare, per contro, la lentezza del procedere del protagonista, Alvin, con il suo tagliaerba munito di rimorchio ma anche la sua indefettibile volontà di condurre un viaggio, forse l’ultimo, che conferisca un significato più alto alla parola “famiglia”. Sono molti gli incontri nei quali incorre Alvin (un Richard Farnswort straordinario, dallo sguardo cristallino sia quando sorridente e ammiccante, sia quando dubbioso o accigliato) e tutti secondo una carrellata di personaggi perlopiù positivi, umani, amabilmente vecchia maniera, e quindi rispettosi dell’età dell’eteroclito viaggiatore cui vengono a trovarsi davanti. È un film sulle immense possibilità della vita, ma anche sull’impossibilità di opporsi a eventi che la condizionano pesantemente al di là delle virtù e della buona volontà di chi nonostante tutto l’attraversi essendo generoso di sé. L’esempio della figlia del protagonista, cui viene sottratta la custodia dei propri bambini senza alcuna colpa se non una pesante balbuzie e una ingenuità che la dichiarano agli occhi degli assistenti sociali come inabile a crescerli, è solo uno dei paradigmi di una fatalità che rompe argini costruiti in una vita con amore e dedizione. Quando Alvin incontra una giovanissima ragazza incinta, scappata di casa perché intimorita di non essere compresa dai propri genitori e anzi osteggiata dalla famiglia intera, il vecchio ha con lei la delicatezza che può avere una mano robusta e incallita nel carezzare un fiore che sa essere troppo fragile per il suo tocco… E le parla con un semplice aneddoto, ancora una volta dritto come un raggio di sole: le dice che quando i suoi figli erano piccoli, soleva dar loro un bastoncino di legno e chiedergli di spezzarlo, poi aggiungeva di legarne diversi in un solo fascio e provare a fare altrettanto… I bastoncini rimanevano tutti integri… Il vecchio dice alla ragazza, come al tempo aveva detto ai propri figli: questa è la famiglia. Un esempio semplice ma mai così veritiero, perché, e Alvin lo sa, la solitudine, l’isolamento, portano fragilità e insicurezza, ci espongono facilmente ai rischi, e per usare un’altra immagine, senza radici e prede dei venti della sorte.

In una delle sue tante soste, obbligate o meno, Alvin rievoca la sua esperienza da soldato nella Seconda Guerra Mondiale, e lo fa in contrappunto con un altro amabile anziano che a sua volta ne porta il doloroso ricordo; perché in guerra si eseguono comandi che sono come la “spina” descritta da Canetti, si fanno cose inumane per obbedire, secondo una perversa meccanica di precisione che non ammette riflessione di sorta, a comandi inumani; si è senza radici e senza terra, se non quella natia portata nel cuore a stento, e allontanata ogni giorno di più da esso a furia di altri ordini inderogabili che lo nutrono di terrore e lo rendono insensibile alla sorte di chiunque porti la bandiera sbagliata. Nessun evento come quella guerra di cui i neo-falchi della politica più muscolare e guerrafondaia sembrano non portare la minima memoria, nessun evento come quello può condurre più vicino un uomo al senso di fragilità e alla consapevolezza dell’insensatezza della violenza. In una battuta folgorante Alvin dice con voce profonda: «Cerchiamo tutti di dimenticare… Ma nessuno ci riesce.» Perché la memoria può essere un tesoro, ma anche una condanna, un peso che non si alleggerisce col passare del tempo e degli anni.

Alvin affronta un viaggio di 240 miglia a cinque chilometri l’ora, solo per sanare una annosa frattura tra lui e suo fratello (il quale ha avuto recentemente un infarto). E sembra essere cosciente di dover espiare qualcosa di grande, qualcosa di altrettanto grande aggiungendo alla sua esperienza di vita, ed è per questo che rifiuta scorciatoie e passaggi in auto: prosegue nel suo epico viaggio in cui ogni incontro è solo l’altra faccia della medaglia del proprio movente… Capire, comprendere, abbracciare, laddove circostanze e dettami di una vita, mai così artificiale come Oggi, spingono a dividere, separare, sparigliare destini, divellere radici antiche e insegnare il rifiuto dell’altro se non come mezzo per ottenimento di fini discutibili.

Lynch non ha mai smesso di stupire e spiazzare anche i propri più affezionati fan, con un registro che sfugge alle definizioni di genere e una sensibilità spiccata per la creazione di mondi narrati con mestiere e che nonostante tengano nella propria orbita il sinistro più spinto e lo straordinario, sono altrettanti territori dell’umana vicenda; quasi a voler rimarcare che, talvolta, non v’è niente di più inverosimile della realtà… e viceversa.

Massimo Triolo

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