Trieste, Il Rossetti, Sala Bartoli. Dal 22 al 24 marzo e dal 29 marzo al 3 aprile 2016
Tre monologhi per due attori. Maria Grazia Plos e Francesco Migliaccio della Compagnia Stabile, diretti da Serena Sinigaglia, si confrontano con un testo dell’autore statunitense Jon Robin Baitz, in cui troneggia la pesante desertificazione delle emozioni provocata da un sistema che costringe gli individui a tradire la propria umanità. La madre del protagonista di questo dramma era fuggita in Usa dopo essere sopravvissuta al massacro del 1941 contro gli ebrei di Odessa. Ora, nella casa di riposo ebraica a Baltimora, è tornata a parlare soltanto lo Yiddish della sua infanzia, dimenticando “l’inglese nel tempo del rimbambimento”. Lui, Ken Hirshkovitz, da giovane operatore con la moglie Barbara nei Peace Corps, ha poi cambiato il nome in Kenneth Hoyleed ora è il vicepresidente, con incarico di marketing e in predicato di diventare presidente della direzione internazionale di una compagnia americana che distribuisce la “baby formula”, latte in polvere nei Paesi del Terzo Mondo. Come l’azienda, lui stesso è incurante del fatto che le condizioni igienico-sanitarie di quelle zone rendano il prodotto una sostanza tossica per i bambini che lo assumono: la priorità va ai profitti e, per questo motivo, nella prima scena, Kenneth si trova a Tangeri, in Marocco, in una stanza d’albergo, per “tagliare i rami secchi”, i dipendenti che non hanno imparato a funzionare a dovere. Nel suo primo monologo beve in continuazione Martini per stordirsi equiparando a più riprese la politica aziendale, se stesso e i suoi colleghi al nazismo, con una lucidità che si farà sempre più lacerante nel corso della piéce. Smaschera così, portandolo alle estreme conseguenze il contrasto non risolvibile tra il restare fedele alle proprie convinzioni etiche e l’essere parte attiva in un’azienda che agisce in modo “moralmente indifendibile”. In questa vera e propria dissonanza cognitiva ha portato se stesso e Barbara a dibattersi fino alla fine: non le critiche della moglie, con la quale non riesce più a confrontarsi, non la morte del figlio sedicenne, accoltellato mentre erano per lavoro in Brasile, costituiscono per lui motivi sufficienti per avere il coraggio di dire basta. Perché “le persone non si dimettono”. Nemmeno per Barbara è facile gestire tutto questo: deve accettare di vedere progressivamente il proprio marito perdersi, di riconoscere sempre meno in lui l’uomo che aveva sposato, con il quale pensava di poter cambiare il mondo. Di essere costretta condividere un “sogno” che non è il suo ma che non era nemmeno di Ken, travolti entrambi da un sistema che assomiglia sempre di più a quell’azienda-istituzione totale che si è appropriata non soltanto del tempo e delle energie dei propri dipendenti, ma anche e soprattutto delle loro anime. E così, nella seconda stanza d’albergo, questa volta a Saint Thomas, nelle Isole Vergini americane, dove si sta svolgendo l’incontro annuale per i dirigenti dell’azienda e le loro mogli Barbara rievoca, fumando ossessivamente, la catastrofe annunciata che l’ha vista protagonista. A lei, che negli anni aveva cercato in tutti i modi di evitare di parteciparvi, viene chiesto di tenere un discorso alle giovani donne che avrebbero accompagnato il marito nelle nuove destinazioni, per rassicurarle e aiutarle con consigli spiccioli di cucina o di economia domestica: un’anestesia da indurre nelle loro menti, insomma. Ci prova pure, ma poi il ricordo della tragedia rompe gli argini e lei scarica tutta la sofferenza accumulata nel tempo. Il terzo e ultimo monologo vede un Ken distrutto, abbandonato dalla moglie e costretto al prepensionamento dopo quanto avvenuto a Saint Thomas, in una stanza d’albergo a Oaxaca, in Messico. Lì registra un’audiocassetta per la madre, sperando che qualcuna delle sue amiche nella casa di risposo possano tradurle in Yiddish quel che lui, in una confessione estrema, cerca di dirle.
Tre alberghi è un testo problematico, che mostra due protagonisti completamente svuotati, ben rappresentati da Maria Grazia Plos e Francesco Migliaccio: l’essere allo stesso tempo vittime e carnefici porta all’impossibilità di esprimere emozioni e il costante paragonare la propria esistenza al sistema nazista ne sono la triste e impietosa cartina al tornasole. Parla anche di noi, di quello che rischiamo di diventare, indotti da una certa modalità aziendale e di vita sempre più pervasiva e disumanizzante, anche alle nostre latitudini.
Paola Pini
Tre Alberghi
Di:Jon Robin Baitz
Traduzione di Masolino D’Amico
Scene: Maria Spazzi
Costumi: Erika Carretta
Regia: Serena Sinigaglia
Produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Interpreti: Francesco Migliaccio, Maria Grazia Plos
Suono e luci: Roberta Faiolo
Aiuto regista: Gioia Battista
Direttore di scena e macchinista: Marco Devescovi
Capo elettricista: Massimo Carli
Fonico: Carlo Turetta
Foto: Serena Serrani
Direttore dell’allestimento: Paolo Giovanazzi
Tecnici d’allestimento
attrezzista: Nathan Marin;
macchinisti: Alberto Castellacci, Christian Cerne, Massimo Tatarella, Giorgio Zardini;
elettricisti: Davide Comuzzi, Gianluca La Rosa, Roberto Starec