Roma, Teatro India, dal 9 al 20 novembre 2016
Il corpo umano è una poesia, parte integrante del tutto. Armonia dell’universo che, come tale, necessita del contatto con la terra, con quella natura che lo ha generato, per non perdere se stesso. Se diventa schiavo di un’ossessione, sportiva o non che sia, se lo si usa senza averne voglia, il cortocircuito non lascia scampo. Bisogna trovare la forza per arrendersi. Il protagonista del nuovo lavoro di Roberto Scarpetti, 28 battiti, interpretato da Giuseppe Sartori e in scena al Teatro India fino al 20 novembre, è un atleta. Un marciatore, per la precisione. Un ragazzo arrivato al successo, alle medaglie, alle Olimpiadi. Arrivato alla vetta. Ma qualcosa in lui si è spezzato per sempre. Non si diverte più, non gioca più, stritolato da una routine invariabile negli anni, sacrificando la vita vera, gli affetti, e tutto senza averne mai avuto il desiderio. Si è lasciato vivere dagli altri, non ha mai goduto dei suoi successi, sin dal giorno in cui fu strappato dal campo di rugby che tanto gli piaceva per essere messo su una pista di atletica, odiata da sempre. Fino al momento di non ritorno, quel doping che paradossalmente gli offre la possibilità di farla finita con quel vortice ormai senza alcun senso per lui. La forza di arrendersi, facendosi deliberatamente scoprire, di smettere di essere solo un mezzo e riappropriarsi del piacere di marciare per il solo gusto di farlo. Il contatto col silenzio, con le sue montagne, il rumore dei suoi piedi sulla terra. Tornare a vivere.
28 battiti (titolo mutuato dalla brachicardia del campione) è senza dubbio un monologo interessante per l’argomento portato in scena e per la prospettiva paradossale, ma non troppo, da cui è posto. Giuseppe Sartori, il giovane attore dal fisico scultoreo sulla scena, è bravo e con grande presenza scenica. Il problema è che dopo aver apprezzato il precedente lavoro di Scarpetti, Prima della bomba, le aspettative erano altissime e in questo caso sono rimaste un po’ deluse. Se interessante ed umanamente emozionante è il percorso dell’atleta rappresentato sul palco, la scelta di farlo esprimere con un accento così particolare, alla lunga stanca, diventando cantilenante. C’è una certa rigidità sulla scena, frutto forse di scelte registiche troppo rigorose e manca il guizzo, quelle sorprese che tanto avevano colpito in Prima della bomba. Forte il finale, con quel corpo trafitto, immolato, che ricorda l’iconografia di San Sebastiano martire. Rimane l’intensa poetica del testo e di un atleta che rimpiange e ricerca la gioia di praticare sport per il gusto di farlo, passando attraverso la distruzione di quel che era divenuto e la riscoperta del proprio corpo. Ci si aspettava di più, e con questo autore è più che legittimo, ma è comunque da vedere.
Paolo Leone