Il commiato di Riccardo Cucchi è stato sobrio e discreto.
Niente grancasse, né melodramma.
Alla radio, d’altronde, si usa così. E questo “allure” elegante (ma non freddo) asciutto (ma non distaccato) è sempre stato una specie di marchio di fabbrica.
Tutti quelli bravi, infatti, partono da lì.
Dalla radio, dico.
Qualcuno ci rimane. Molti sgomitano per trovare posto in televisione, dove si diventa divi più facilmente, e gli stipendi sono più alti.
Ma quelli che rimangono, in genere, sono i più bravi: perché la radio è un posto un po’ magico, come può ben testimoniare chi ci ha avuto a che fare. Magico e impegnativo, dove non esistono i trucchi e le ruffianerie di un programma televisivo.
Alla radio non si bluffa: sei tu e un microfono. Tu, e la gente che ti ascolta dall’altra parte; in casa, nel posto di lavoro o in automobile… Quindi, o hai qualcosa da dire, o sei fritto.
I radiocronisti italiani, poi, sono un’eccellenza. Quelli sportivi, dei fenomeni in miniatura.
Sono gli eredi (degni) di una scuola che viene da lontano, ed ha saputo educare ad un Italiano bello e pulito intere generazioni. Che con Bortoluzzi, Ameri e Ciotti hanno imparato persino a parlare, abitando una lingua che ogni domenica sciorinava sostantivi e aggettivi così lussureggianti che ce li portiamo ancora dietro. Gli “spalti gremiti ai limiti della capienza” e “l’asse mediana del terreno”. Rivera che “effettua il passaggio a beneficio di Prati”, e Cudicini, “che sistema la barriera a protezione del palo di destra”.
Pur nella concitazione dell’evento sportivo, mai un congiuntivo sbagliato, o un sinonimo fuori posto… E dal punto di vista sintattico, una ricchezza che batte la tv sei-zero sei-uno.
Quando eravamo piccoli, quello (e non altri) era il mestiere che ci sarebbe piaciuto. Molto più dell’astronauta o dell’archeologo: niente di più affascinante del poter assistere alle partite e raccontarle, viaggiando in tutti gli stadi d’Italia. Visitare, grazie al calcio, le città più belle d’Europa, tipo “Borussia”, “Feyenoord” o “AstonVilla”. E riempire le domeniche degli Italiani con un sacco di “Scusa Sandro, Vai Enrico”.
Perché a fare la radio, bisogna essere bravi. Non basta essere competenti: devi avere la voce, l’impostazione e anche la cadenza giusta, esattamente come un grande attore di prosa… L’assalto del Bilbao alla Juve raccontato da Ameri è un Iliade moderna; l’incipit di Francesco Repice prima di Real-Juventus è un poema cavalleresco. E dubito che l’Ariosto avrebbe saputo fare molto di meglio.
Andate a riascoltare il duello sulle montagne tra Galdos e Bertoglio del Giro ’75… Chi non si commuove, è un uomo molto infelice.
Mi accorgo, però, che ne è venuto fuori un elogio della radio, più che di Riccardo Cucchi.
Ma, forse, gli risulterà gradito proprio per quello; visto che dell’eleganza e della discrezione ne ha saputo fare una bandiera. Mettendoci a disposizione una voce e un grande talento, anziché la faccia.
E anche per questo, grazie di tutto.
Maestro.
Riccardo Lorenzetti