Dai racconti di Tiziana Tomasuolo prendono vita i tre episodi raccontati in “Da soli non si è cattivi”

Data:

Al Teatro Vascello di Roma, il 22, 23 e 24 maggio 2017

Nella ricerca dell’amore si nascondono sentimenti di vendetta e di morte, perché la paura di perdere l’altro o di non sentirsi all’altezza impedisce di viversi il sentimento. Narrazioni grottesche che attraverso la chiave comica generano immagini paradossali.

Peccato che la messa in scena si accomodi troppo sul testo, mostrando poca originalità nella regia e nella recitazione.

La prima vicenda mostra Riccardo e Barbara, che da 14 anni vivono allo stesso modo, diventando specchio l’uno dell’altra, imitandosi ed entrando in competizione per poter far meglio ciò che sanno fare entrambi.

La scena si apre con i due attori in giacca e cravatta, con i tacchi, la barba e i capelli lunghi: un’immagine surreale. Preparano la tavola e iniziano a mangiare in sincronia, finché Riccardo non fa cadere la forchetta. Il primo “errore” che scatenerà una serie di sfide per ritornare al livello della compagna. Un traguardo che fissano loro stessi, unici competitori e giudici; così entra in scena il terzo personaggio, chiamato come garante, seppur ignaro. Il ballerino con l’accento americano, che entrambi pensano di poter conquistare si trova in mezzo a una coppia folle ed esaltata che si accanisce su gesti e parole. Il tema è molto chiaro: lo sfinimento di una relazione che non sa trovare più stimoli, capace di rigenerarsi solo attraverso la sconfitta del partner. Compreso questo però non si va avanti, non c’è approfondimento, ma una continua reiterazione di gag analoghe, perpetuate fino allo sfinimento, provocando una reazione di noia nello spettatore, che ha già visto tutto e può immaginare il seguito. A codificare la scena interviene una voce fuori campo che descrive la coppia in tono asettico, velocizzando il ritmo per evidenziare la routine. Gli attori invece parlano poco e la loro interpretazione è molto quotidiana. L’episodio fa leva sull’immagine che è stata costruita (dalla scena, ai costumi, al trucco), mancando di profondità interpretativa. Si presenta quasi come un numero da stand up comedy, vicino all’esperimento laboratoriale.

A questo segue una pausa (ogni scena è intervallata dalla chiusura del sipario) che porta la platea fuori dalla magia. Si spengono le luci e nel buio del palcoscenico una donna scomposta su una sedia è davanti un tablet rivolto al pubblico con l’immagine di Trinity (protagonista di Matrix) sullo sfondo. Innamoratasi del medico dell’ospedale che le ha controllato la spalla, vorrebbe chiamarla e qui inizia un flusso di pensiero fatto di ipotesi e ripensamenti. Un monologo cabarettistico che ricalca lo stile di Verdone con i suoi “se magari..magari” in dialetto romano e con uno sguardo che sfugge alla frontalità. Da una semplice azione che non si conclude arriva a pensare di poter salvare il mondo per conquistare la dottoressa, “perché io sono Trinity”. Divertente e semplice, risulta la storia più godibile ed equilibrata, senza troppi vezzi, che dà spazio a una buona prova attoriale.

Ultimo atto surreale: un tappeto bianco circoscrive l’area dei due personaggi, un Principe Azzurro in mutande che stura un cesso e una Biancaneve con le Converse che siede sul bidet.

Lui inizia a tirar fuori dal wc masse enormi di capelli e oggetti vari, tra cui una mela mangiata, mentre lei cerca di parlare, di aiutarlo, di interagire. Nell’evidente distanza tra i due, lei comincia a sospettare di non essere amata, perché lui non è geloso a differenza sua. Così suppone che se fosse morto sarebbe meglio che se la lasciasse, perché non soffrirebbe. Il lutto genera compassione a differenza del senso di colpa e su questa deriva continua il suo discorso, nei panni di una candida e smaliziata principessa. Un contrasto divertente che finisce con lui che chiede di separarsi portando via l’intera scena, trascinando il tappeto. Rimane in silenzio per un po’ Biancaneve, con un bue puntato nel palco vuoto, come un personaggio decontestualizzato. Nell’incapacità di reagire alla perdita, di andare avanti senza lui, chiuso nel bagno, è paralizzata.

Ci sono soluzioni ironiche, ma che rimandano a scenari altri di cui si perde il filo e rimane da chiedersi: che senso ha? Al di là del gusto visivo della composizione, perché i due personaggi sono un principe e una principessa? A volte, nel teatro, quando una cosa non è strettamente necessaria, diventa un vezzo formale. Lo stesso limbo dell’arte contemporanea in cui si può dire che la Merda d’artista di Piero Manzoni è un’opera d’arte ma le due derivazioni sono trovate commerciali.

Seppure le scelte registiche sono interessanti nel modo in cui prendono forma, non essendo supportate da un chiaro senso metaforico, rimangono vacue.

Un vero rammarico che fa sembrare lo spettacolo una prova laboratoriale e solo all’interno di questa sezione può essere apprezzato nelle sue particolarità, mancando di armonia ed equilibrio delle parti che ne farebbero uno spettacolo di professionisti del teatro.

Federica Guzzon

dedicato a Matteo Latino
di Tiziana Tomasulo
regia Fabiana Iacozzilli
con Simone Barraco, Francesca Farcomeni, Francesco Meloni, Marta Meneghetti, Ramona Nardò, Francesco Zecca
aiuto regia Francesco Meloniassistenti alla regia Federico Spinelli, Silvia Corona, Gianmarco Vettori, Francesca Sansone
scene Fiammetta Mandich
costumi Gian Maria Sposito, Davide Zanotti
trucco Simona Ruggeri, Laura Alessandri
disegno luci Davood Kheradmand
collaborazione artistica Riccardo Morucci, Alberto Bellandi, Giada Parlanti
Una produzione Lafabbrica e La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello
in collaborazione con Centro Artistico Internazionale Il Girasole, Associazione Ex lavanderia,  Centro Iternazionale La Cometa, Sycamore T Company
con il sostegno di Kollatino Underground, Teatro Biblioteca Quarticciolo e Clossa Lab

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