Venezia, Teatro La Fenice, dal 23 maggio al 6 giugno 2017
Con certi spettacoli sono filantropo, mettiamola così. Torno a distanza di un anno a rivedere, per l’n volta, Il barbiere di Siviglia nell’allestimento del 2002, riproposto ciclicamente al pubblico foresto e serenissimo. Nato vecchio e già pensionabile, questo Barbiere rientra nella tradizione delle “buone cose” gozzaniane, assai apprezzato da target d’una certa età come quello presente in sala l’altra sera. Bepi Morassi rilegge la vicenda nell’ottica del musical e lavora molto sull’interprete che però rimane imprigionato in una regia ormai desueta. Il rispetto pedissequo delle didascalie, la natura luciferina del barbitonsore, rosso vestito e da sotterra sortito, l’ipercaratterizzazione di Berta possono essere certo piccoli o grandi meriti, ma nel complesso restano briciole rispetto al collage di banalità complessive. Lo stesso dicasi per le scene di Lauro Crisman, pregevoli nella loro semplicità, ma statiche e illuminate dalle luci troppo calde di Vilmo Furlan.
Lo sprone che mi riporta innanzi a questo Barbiere passatista è Alessandro De Marchi. Ne ho finora due ricordi, uno felice a Pordenone nel 2014, alla guida dell’Accademia Montis Regalis nello splendido Rivals di David Hansen, uno più triste risalente all’inefficace Juditha triumphans a Venezia nel 2015. “Non c’è due senza tre”, colgo l’occasione. Che dire? Complice l’orchestra in stato di grazia, la sua direzione valorizza in maniera elegante il linguaggio rossiniano. Tira fuori dalle sezioni una lodevole nitidezza, una costante compattezza fa si che il discorso sia chiaro e omogeneo dalla Sinfonia alla conclusione, trovando momenti di divertito, ma sempre misurato, slancio nel finale I e nel quintetto del secondo atto.
Ottimi i baritoni Julian Kim e Omar Montanari, rispettivamente Figaro e Don Bartolo. Il primo restituisce un barbiere assai valido, della cui voce rimangono impresse la limpidezza, il bel timbro e l’ampia estensione. Il secondo, grazie a autorevolezza, inventiva e buon gusto, interpreta un tutore perfetto nel canto e sulla scena, migliorato rispetto alla precedente occasione nel sillabato Signorina, un’altra volta. Chiara Amarù, Rosina vigorosa, ritrova il timbro corposo e profondo, accompagnato dalla solida tecnica che le permette di superare ogni agilità con disinvoltura. Gradevoli le sue variazioni nella cavatina iniziale e nell’energico Contro un cor che accende amore. L’Almaviva di Giorgio Misseri ha le carte in regola per crescere in spessore vocale e drammatico, seppur sia doveroso riconoscere come la voce del giovane tenore sia maturata rispetto a tempi passati. Carlo Lepore veste i panni d’un Basilio corretto e sempre presente. Berta è Giovanna Donadini, veterana del ruolo di cui diffonde il verbo ovunque la chiamino. Rimane interprete di riferimento a cui Morassi dà ampio spazio, trasformandola in mina vagante fondamentale per la drammaturgia. Fiorello giù di tono per William Corrò, di solito interprete discreto, non classificabile l’ufficiale d’Emiliano Esposito.
Eccellente il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti, circostanza non scontata in repliche di routine come queste.
Consensi calorosi per tutti, con risate e applausi a scena aperta, all’ultima recita del 6 giugno.
Luca Benvenuti