Dopo nove film dove ci ha detto tutto di sé e della sua arte, dopo aver scomposto lo storytelling tradizionale, dopo aver riabilitato la figura dell’eroe fumettistico innalzandolo a simbolo e iscrivendolo di fatto nell’eternità, anche cinematografica, dopo aver raccontato l’onirico attraverso la realtà, dopo il prestigio e la fascinazione del meccanismo del trucco-cinema, dopo aver educato la fantascienza alle logiche insondabili dell’amore, Christopher Nolan si rinnova ancora, perfezionando il suo cinema e concependo un “unicum”, qualcosa che non esisteva, e che doveva necessariamente esistere. Un’opera cardine, un’opera futura, una memorabilia. “Le opere d’arte non si fanno. Le opere d’arte accadono”, scrive Alessandro Baricco. Dunkirk di Christopher Nolan è accaduto. Letteralmente. In sala, durante la proiezione, Dunkirk accade per ogni spettatore. Perché Dunkirk prima che un film è un’esperienza: da vivere, completamente, interamente, profondamente. L’ultimo film di Christopher Nolan è immersione visiva e sonora, con un 70mm di formato che ingloba tutto e accoglie lo sguardo privandoti di distrazioni, di fughe, di evasioni; con un lavoro raffinatissimo nei suoni che travolgono, frastornano, immedesimano. Eccessivo, prepotente, apnoico, sinfonico, gigantesco. Con Dunkirk Nolan non fa un film di guerra. Nolan fa la guerra. E chiede a noi innanzitutto di seguirlo.
Il regista di origini britanniche ci porta sulle spiagge di Dunkerque, dove 400.000 soldati sfollati, britannici e francesi, sono come topi in trappola: dietro il nemico che avanza, davanti un lembo di mare, il canale della Manica, che li separa dalla patria. Una prigione a cielo aperto. L’uomo allora smette i panni del soldato, e ritorna essere umano: non ci sono eroi, ma persone comuni, il dictat è sopravvivere. E bisogna farlo nel tempo e nello spazio, come il cinema di Nolan obbliga ormai da sempre. Terra, aria, e mare; una settimana, un giorno, un’ora: sono i 3 fronti nei quali Dunkirk accade, senza aver bisogno di imbastire una trama e una storia. Se con Inception il manipolatore Nolan dilatava il secondo in ora, qui permette agli eventi di una settimana, quelli di un giorno e quelli ristrettissimi di un’ora di incontrarsi, e tracciare un percorso inizialmente ideale, poi concreto, e infine salvifico. È in questo circuito spazio-temporale che si crea la narrazione di Dunkirk: una narrazione vera e propria, con un ritmo definito e una sua evoluzione capace di giungere al suo climax nel momento che le tre linee spazio-temporali collimano, e di avere infine una distensione. Una narrazione nella Storia, ma senza storia: la trama carsica che muove gli ingranaggi in modo invisibile e spontaneo (approccio completamente opposto a quello dell’ultimo lavoro del regista, Interstellar) dove l’unico possibile fil rouge rintracciabile è quello degli eventi che coinvolgono Tommy (Fionn Whitehead), svela perciò un film di volti (considerate gli occhi di un Tom Hardy da Oscar), di ruoli, di personaggi (con i volti noti di Mark Rylance, Kenneth Branagh, Cillian Murphy) che nella barbarie della guerra tornano ad essere normali: il personaggio interpreta l’attore, il film supera il concetto stesso di film, in un’ambiziosa improvvisazione, voluta e ricercata, a fronte proprio dell’assenza di uno script di base (come era intenzione dello stesso regista).
Nolan prende la macchina da presa e si getta nella mischia della guerra: riprende il terrore nudo e crudo, limpido e spietato, in un accecante realismo. Se i suoi film precedenti erano enunciati della poetica del regista, esposta in modo a volte diretto, a volte più nascosto, ma sempre pacato e misurato, con Dunkirk Christopher Nolan lancia dei gridi laceranti. Il primo è ribadire con autorità che la grandezza e la potenza del suo cinema partono da una dimensione reale, dall’esigenza di raccontare uomini reali, mossi da emozioni, sentimenti, stati d’animo reali, pervasi da una quotidianità e un’ordinarietà abbandonata, ma ricercata, agognata, che spesso si trasforma in straordinarietà. Il reale come principio, la verosimiglianza come scopo. Perché dietro la fervida immaginazione che ha liberato dalle catene uno spiazzante Joker, che ha piegato Parigi, con le sue strade e i suoi palazzi, come fosse un origami, che ha rovesciato il corso lineare e naturale di un racconto, c’è un tradizionalista che fa pochissimo uso degli effetti visivi, preferendo costruire tutto dal vero, e girando tutto quello che può con una sola cinepresa: materialità e fisicità dell’azione in scena. In Dunkirk è tutto elementare, in quel contesto bellico, di prigionia, tutto è apparentemente normale, mai eclatante o retorico e gratuito; ogni gesto, ogni azione, anche semplice (come aprire una porta di uno scafo che affonda, attraversare con una barella un pontile costituito da un solo asse di legno, allungare una mano, improvvisare un molo con le camionette), si caricano di forza espressiva, di emozione, di pathos, di umanità, di commozione e pianto, di singolarità, e lo fanno grazie al cinema. Ed è qui che interviene la forma, il secondo spiazzante grido del suo cinema, un cinema che non vuole arrendersi, abbattersi: la realtà viene viziata dalla forma; trasformata, modellata, plasmata, attraverso il linguaggio della settima arte. Innanzitutto con un montaggio serrato, vigoroso, incandescente di Lee Smith, di così rara sofisticazione che andrebbe studiato in ogni scuola di cinema; con la fotografia plastica, densa, poetica ed allusiva di Hoyte Van Hoytema, e con la colonna sonora del solito Hans Zimmer, onnipresente, che ammanta di potenza ed epicità ogni inquadratura, ogni dettaglio, dallo sguardo disperato a quello trasformato dalla speranza, da un corpo che cade e un altro che si rialza.
Dunkirk è allora cinema allo stato puro. Impossibile pensarlo senza quel montaggio, senza quella colonna sonora, senza determinate scelte di regia. Dunkirk esalta la realizzazione cinematografica in ogni sua parte. E così facendo Christopher Nolan salva noi e, con noi, il cinema: il cinema puro, nell’imperfezione della pellicola e nella grandezza opprimente di un 70mm, un cinema essenziale, ma un cinema a tutto tondo, pieno, totale, laddove il “come” diventa il “cosa”, e la forma si fa contenuto. In una di quelle piccole imbarcazioni civili chiamate a raccolta dal governo inglese per attraversare la Manica e portare in salvo più soldati possibili, c’è anche quella di Christopher Nolan, che testardamente e caparbiamente affronta le insidie e i pericoli di un cinema invece che fa la guerra, che corre troppo senza guardarsi indietro, che spesso dimentica se stesso e le sue origini, che si rinchiude (quello sì veramente in prigione) dietro alle piccole dimensioni di schermi tv o altri apparecchi di trasmissione moderni: un cinema che abita la modernità da clandestino. Perché Nolan lo sa, citando sempre Baricco, che “la modernità è innanzitutto uno spettacolo. E nessuna voce incline a vietarsi il rischio della spettacolarità potrà riuscire a cantarla”. E la spettacolarità del cinema vero è nella sala. La sala è la nostra Gran Bretagna. La patria a cui, oggi più che mai, bisogna ritornare. È la sfida lanciata da Nolan, così stringente da metterci nella condizione urgente di scegliere. Perché Dunkirk accade in sala, e non può farlo in nessun’altro luogo. E accade come un capolavoro. Perché, come scriveva il critico letterario Giovanni Macchia a riguardo, “i veri capolavori hanno una loro docilità: essi lasciano fare”. Così in questo spettacolo debordante della modernità si compie il miracolo della docilità del capolavoro. È lo spitfire rimasto senza carburante, che infine atterra e si adagia sulla spiaggia. Immagine-simbolo commovente e nostalgica di un cinema sopravvissuto, fiero, vittorioso e fulgido. Che grida la sua (r)esistenza.
Voto 10 su 10
Simone Santi Amantini