Corriere dello Spettacolo

Play Strindberg

Venezia, Teatro Goldoni, dal 9 al 12 novembre 2017

La famiglia quale quotidiano campo di battaglia. Strindberg c’aveva scritto Danza macabra (qui la recensione dell’aprile 2016), storia di “vampiri”, succhiatori inesausti dell’esistenze altrui come sono Alice, Edgar e Kurt. Friedrich Dürrenmatt ne trasse una riscrittura, Play Strindberg, che debuttò con successo al Teatro di Basilea l’8 febbraio 1969. La pièce nacque dall’insoddisfazione per le traduzioni e gli adattamenti esistenti, motivo che lo costrinse a intervenire in prima persona. Dal programma di sala del 1969 si scopre il suo procedere. Dürrenmatt legge l’originale e ne lamenta il tono troppo letterario. Prova con poca convinzione un adattamento per tagli, ma vi rinuncia e si orienta verso un più onesto rifacimento. Snellisce il testo, conservando la vicenda e l’idea drammatica portante, avvicina il linguaggio a Ionesco e Beckett ed elimina il cotè vampiresco-demoniaco. Cosa ottiene? “Una commedia sulle tragedie borghesi sul tema del matrimonio”. Dall’allucinata e personale analisi del matrimonio di Strindberg, lo sguardo di Dürrenmatt si fa distaccato, secondo quel peculiare scrutare il mondo negli occhi “come un domatore guarda una bestia feroce”. Non più la torre tonda della fortezza, ma un ring a delimitare un salotto e su entrambi i lati delle panche per gli oggetti di scena e le pause degli attori. Si susseguono undici riprese, precedute dal gong e preannunciate da un titolo grottesco. I dialoghi diventano assai taglienti, sciabolate aggressive zeppe di rivalsa e desiderio d’autoaffermazione. Nel gioco al massacro alcune frasi si ripetono come rituale apotropaico – “Non parliamone più”, “Di noi non rimarrà altro che una carriola di letame” “Più o meno” – e i toni si fanno estremi. Il risentimento della coppia offre brillanti occasioni grottesche che, come una miccia che lenta prende fuoco, scoppia con l’arrivo di Kurt. Viene a galla l’amore mai sopito di Alice per il cugino e partono le vendette reciproche, sotto il peso dei venticinque anni di nozze.

Il regista Franco Però ha mano delicata, consacrandosi a una sostanziale fedeltà alle indicazioni del drammaturgo, cosi come Antonio Fiorentino rispetta grosso modo le note autoriali in merito all’impianto scenico. Tra gli interpreti domina, senza ombra di dubbio, Maria Paiato, Alice che di diabolico conserva solo il velluto rosso del costume disegnato da Andrea Viotti. Paiato si conferma, ancora una volta, attrice di riferimento per il teatro italiano. Seppur dia l’assoluto nei monologhi che ne mettono in luce la poliedricità – non smetteremo mai di ricordare con emozione ancora viva Erodiade e Amuleto – il personaggio è reso con pura abilità attoriale. Ogni battuta è una mannaia affilata restituita sempre coi giusti toni, la partitura gestuale è perfettamente coordinata al recitato, la dizione pulitissima. Attributi che non si adattano all’Edgar di Franco Castellano, convincente nell’interpretazione corporea, ma meno sul piano del parlato, afflitto da uno sporadico incespicare nelle parole che non arrivano sempre chiare in platea. Maurizio Donadoni è Kurt di misura, ben restituito nei suoi tratti grotteschi.

Pubblico poco numeroso alla recita dell’11 novembre, ma generoso nell’attribuire un caloroso consenso finale agli interpreti.

Luca Benvenuti

Play Strindberg
di Friedrich Dürrenmatt, traduzione di Luciano Codignola
Personaggi e interpreti:
Alice: Maria Paiato
Edgar: Franco Castellano
Kurt: Maurizio Donadoni
 
Regia: Franco Però
Scene: Antonio Fiorentino
Costumi: Andrea Viotti
Luci: Luca Bronzo
Musiche: Antonio Di Pofi
Produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Artisti riuniti srl, mittelfest
Foto Simone Di Luca
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