Fino al 4 febbraio al Teatro Brancaccio di Roma
Neri Marcorè non è nuovo al teatro musicale, ha già esplorato Gaber e i Beatles, costruendo spettacoli che guardano sia al teatro civile che alla bizzarria del surreale.
Con “Quello che non ho” lancia degli interrogativi provocatori sulla nostra epoca, ispirandosi a De André e Pasolini, due giganti che si sono trasformati in “contestazione vivente”, per citare lo stesso Pasolini.
Al Brancaccio abbiamo assistito ad una personalissima visione dell’oggi, orfano di ideali e sgraziatamente sospeso fra ansia da prestazioni presenti e speranza nel futuro. A fare da pilastri alla narrazione, le canzoni del “principe libero” ligure – in particolare il concept album “Le nuvole” – e le profezie apocalittiche che Pier Paolo Pasolini ha affidato agli “Scritti corsari” e al documentario “La rabbia”.
È stata una carrellata di quadretti emblematici a delineare utopie sempreverdi, inciampi grotteschi e storie di ordinaria inciviltà, altrimenti detto: lo sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente (si figura un sesto continente costituito dai rifiuti galleggianti al largo delle Hawaii), la xenofobia e i pregiudizi (quanto è attendibile la testimonianza di un Rom?), la guerra civile causata dal coltan (minerale indispensabile per far funzionare telefonini e playstation), la questione del Mezzogiorno – che i politici pensano di risolvere svegliandosi all’una.
Questo mosaico di storie si anima di satira, musica e suggestione poetica. Ottima la prestazione di Giua che incanta totalmente nell’interpretazione di Khorakhanè; quasi commuove nell’ultima strofa, la poesia in lingua romanès del rom Giorgio Bezzecchi. Validissimi anche Pietro Guarracino e Vieri Sturlini a chitarre e voce.
Neri Marcorè una conferma.
In ultima analisi, sembreremmo avviati verso una fine apocalittica improrogabile, dovuta alla capacità tutta umana di autodistruggerci; sembrerebbe che le lucciole pasoliniane si stiano spegnendo e che il viaggio “in direzione ostinata e contraria” cantato da De André sia giunto al capolinea. Eppure, proprio all’acme della parabola negativa, riemerge quella “goccia di splendore di umanità, di verità” individuata dal cantautore nella sua “Smisurata preghiera”. Forse una speranza c’è.
Spettacolo da vedere.
Maria Vittoria Solomita