Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Assicurazioni Generali, 8 maggio 2018
La struttura “From Bach to Bowie” è ripartita in tre atti con due intervalli non brevissimi che favoriscono lo stacco tra un genere musicale e l’altro: a partire dalle cattedrali sonore di Johann Sebastian Bach, precedute da un breve incipit silenzioso ed eseguite dall’intera Compagnia composta da quattordici artisti, si giunge alla fine immersi in una multiforme antologia dominata integralmente da David Bowie dopo aver attraversato culture e vocalità più tradizionali eseguite da alcuni solisti.
Ci si trova fin da subito di fronte a vere e proprie sculture in movimento che la sincretica visione coreografica di Dwight Rhoden, fondatore assieme a David Richardson del Complexions Contemporary Ballet, riesce a esaltare in massima misura combinando con invidiabile sapienza scuole e mondi coreutici lontanissimi fra loro e creando così qualcosa che riesce ad essere al contempo nuovo e antico grazie all’unione tra classico, etnico e contemporaneo.
La sorprendente continuità di un movimento che si mantiene dinamico, anche nelle pause rese quasi impercettibili dai danzatori, cattura l’attenzione del pubblico creando una sensazione di fluidità simile al ritmo di un respiro universale e di gesto in potenza, carico della sua intera realizzazione un attimo prima che essa avvenga.
La struttura fisica dei danzatori, a partire da David Richardson stesso, protagonista di “Imprint/Maya”, spettacolare assolo posto al centro del balletto non è di sicuro quella abituale in un ballerino classico. Non rimanda a immagini di leggerezza eterea ed evanescente, ma piuttosto ad una forza interna, coltivata con cura amorevole e strumento di espressione artistica sopraffina funzionale al controllo di ogni singolo dettaglio motorio e interpretativo.
Le note di Bach dominano come si è detto la prima parte, declinate in successione dalle voci di clavicembali, pianoforti e violini. E proprio con la celeberrima Ciaccona dalla Partita n.2 in re minore per violino si inizia a comprendere come sia possibile rendere concretamente visibile l’astrazione più pura, sensazione che si fa via via più chiara prima in “Gone” (con Greg Blackmon, Addison Ector e Timothy Stickney), poi in “Testament” (in scena Andrew Brader e Kelly Sneddon) e si illumina nell’ “Ave Maria”, connubio splendido fra la voce che accompagna la melodia ed il pas de deux di Young Sil Kim e Kelly Marsh IV .
La scenografia, creata esclusivamente fino a questo punto dalle luci usate con grande accortezza da Michael Korsch, si arricchisce di pochi ed essenziali elementi nel terzo atto. Qui i colori dei costumi e del trucco sul viso dei danzatori definiscono chiaramente la virata radicale verso una sana ambiguità coreografica, del tutto coerente con la poetica di David Bowie, apoteosi conclusiva dell’incontro tra i diversi stili già ben espresso fin dal principio ma non ancora del tutto realizzato, che segna l’abbattimento definitivo di qualsiasi confine reale o immaginario.
Il finale è una vera è propria festa gioiosa accompagnata dagli entusiastici applausi del numerosissimo pubblico presente nella grande sala del Rossetti.
Paola Pini