La frontiera americana si macchia del sangue delle minoranze e degli oppressi, e la polveriera di razze e culture fra loro eterogenee che la caratterizza, innesca una miscela esplosiva (Wyoming 1890, guerra della Contea di Johnson).
La Storia americana è tale da comprendere in sé moloch di sangue dettati da due elementi basici: razza e ricchezza, e mai il genere western si era spinto a una tale dolente amarezza e pietoso sguardo su quei cubitali sacrifici come nei Cancelli del cielo di Cimino. Cimino inscena la brutale macchina del proto-capitalismo americano, secondo uno schema apparentemente semplice: da una parte i ricchi proprietari terrieri, dall’altra l’enorme massa di contadini, perlopiù immigrati, che dopo epici sforzi– e qui il termine epico va inteso in contrasto con lirico, là dove si presume debba regnare una fotografica oggettività – si vedono assegnato uno sputo di terra senza niente sapere di ciò che li aspetta: ovvero la miseria, lo stento, la privazione, un tributo altissimo da pagare per l’innesto delle loro vite nel glorioso ceppo americano. All’inizio dell’era reaganiana esce questo film monumentale dai costi ciclopici che raffigura la scena di fine Ottocento di un America figlia delle glorie pionieristiche e dagli spazi interminabili, dove l’abbondanza di terra aveva dettato la cosiddetta linea Monroe, con una forma di realismo pittorico sconvolgente (si veda l’analogia della ricchezza e del nitore estetico della fotografia del film, della composizione delle immagini, con l’arte pittorica di un Albert Bierstadt) e una profondità di campo figlia di una ricerca tecnica quasi prometeica, dove lo spazio esteso e la visuale amplissima fanno da controcanto a inquadrature in cui Cimino incornicia paesaggio e personaggi secondo una logica dell’immagine dentro l’immagine, dove tutto appare visibile a ogni costo e il movimento si fa poetica. Se la prende lunga il regista, pennellata dopo pennellata, attribuisce ai soggetti una psicologia minuta e verosimile senza scordare la loro collocazione in uno spazio di azione più ampio, ovvero la Storia il loro Tempo. Così la pellicola si dilata, assume un aspetto diacronico e tempi lunghissimi che vanno, però, a essere spezzati da immagini crude e rapide, iperrealistiche e sconcertanti per spiccia efficacia. Parlavamo di un sacrificio, e l’incipiente ottimismo spinto dell’era reaganiana non poteva che accogliere questo film monumentale e amarissimo con amplissime riserve se non con sdegno. Cimino commette l’errore fatale, in seno a una società in cui tutti sono in ascesa oppure in caduta, una società protestante in cui il successo e il denaro sono figli di una sorta di investitura addirittura divina presso coloro che ne hanno, di incentrare il suo film in un esempio di lotta di classe. Ed è punito sia dalla critica, che accoglie il film in modo freddo e a tratti persino derisorio, sia dal pubblico che non ne comprende né il significato né la ragion d’essere, non potendolo forse inquadrare in niente che si fosse visto fino ad allora nel genere western. “È un film così sbagliato da far sospettare che Michael Cimino abbia venduto l’anima al diavolo per ottenere il successo de Il Cacciatore, e che ora il diavolo sia venuto ad incassare”, queste le parole lapidarie espresse nella recensione firmata da Vincent Canby sul New York Times, che esce il giorno della prima newyorkese.
Quando Cimino, con “Il cacciatore” (1978) consegue un successo strepitoso, non più eguagliato a dirla tutta, siamo in piena New Hollywood: il cinema americano fatto dai registi, i film che non piacciono ai produttori ma incassano bene e ottengono entusiastiche recensioni della critica, i budget faraonici in mano agli autori, un nuovo modo di fare cinema. “In questi anni la New Hollywood è all’apice della creatività: la generazione dei Coppola ha incrociato quella dei Lucas e degli Spielberg, con Scorsese un po’ tra le due. Riceve così un ottimo ingaggio per filmare il suo terzo film, che dovrebbe essere nelle sue intenzioni il proprio capolavoro definitivo. In fase di lavorazione del film, Cimino beneficia di un budget altissimo dalla casa produttrice United Artist – la United Artists è una compagnia di produzione fondata a ridosso degli anni Venti, fra i padri fondatori: Charlie Chaplin e DW Griffith, e fino alla fine degli anni Settanta continua essa significava cinema autoriale ad alto budget –, ma è chiaro fin da subito che il budget sarà polverizzato. Lo scenario peggiore, secondo le prime stime, si aggira sui venti milioni di dollari. In una situazione di normalità, e in un’altra epoca storica, la corsa del film si interromperebbe qui, con lo studio che cerca di capire quale scappatoia usare: chiudere il film e pagare lo scotto o spendere tutti i soldi che vanno spesi per trovarsi in mano il capolavoro che tutti s’aspettano. Per Andy Albeck, che ragiona in termini di numeri puri, venti milioni di dollari per un kolossal firmato dal nome più caldo in circolazione sono un buon affare. Ci sono ragioni di orgoglio che si profilano all’orizzonte: I cancelli del cielo è infatti la carta più sicura, tra quelle nel mazzo della nuova United Artists, per vincere qualche Oscar (la specialità della gestione Arthur Krim). Così le riprese vanno avanti. Ciò che United Artists sta sottovalutando, in questo momento, è la dedizione del regista. La reazione di Cimino alla sfiducia dello studio, reale o percepita, è rocambolesca: per nulla disposto a mettere in discussione i dettagli, decide di blindare il set del film alla produzione. Il divieto è esteso anche alla stampa, un po’ per strategia di marketing e un po’ per evitare che qualche naso scomodo inizi ad annusare il clima di tensione.” (Cit. da Francesco Farabegoli, Il film maledetto – La storia de I cancelli del cielo, il capolavoro di Michael Cimino “che ha distrutto la New Hollywood”).
Circolano anche voci malevole sul puntiglio maniacale del regista e sul suo atteggiamento dispotico con gli attori, nonché sul gigantismo del suo Ego artistico.
Cimino è vulcanico e caparbio, in sede di costruzione del suo film, e il film viene a costare, a giochi fatti, una cifra spropositata per l’epoca: circa quaranta milioni di dollari. La sua uscita nelle sale decreta addirittura il fallimento della United Artists. Non è un film d’intrattenimento e non è una pellicola cervellotica, verbosa e concettosa, è piuttosto una sintesi mirabile di una voce estetica nuova e di un insieme di eventi e significati trasversali a più generi. Il film esce nelle sale “brutalmente” mutilato dalla produzione che impone tagli all’originale di quasi tre ore di pellicola, e il risultato, come dicevamo è un flop colossale. Solo in maniera relativamente recente è stato rivalutato dalla critica e apprezzato da un pubblico più ampio, ma Cimino aveva già addosso l’etichetta di autore maledetto, e ha sempre dovuto faticare per realizzare i suoi successivi film.
L’epica del film parte in sordina con una sorta di ritrattistica di anime e pensieri, per poi sfociare in una mattanza dei corpi, ma solo dopo che anche di quelle anime, il destino ha eretto una gigantesca lapide. Non è un caso se l’incipit del film rappresenta il falso orizzonte assiologico in cui si muove la poetica e la mistica caratteristiche del sogno americano: giovani laureati che si avviano a un ruolo che ratifica semplicemente l’abuso e il crimine dei potenti sui deboli, così in contrasto con le parole che nella cerimonia di laurea pronuncia il decano descrivendo come intento principe dell’uomo di cultura, il travaso della propria conoscenza e della propria scienza nell’incontro con l’uomo incolto, l’uso di essa allo scopo di una sorta di evangelizzazione laica di coloro che ignorano, non sanno. Ma quanto è greve il fardello di chi sa! Quanto è colpevole la sua scienza assoggettata al mantenimento, ad ogni costo, dei rapporti di forza attraverso cui si esprime il giogo delle classi privilegiate sulle masse, appunto, incolte e portatrici di una vita scandita dalla miseria e dalla fatica. Questo orizzonte utopico, demagogico vorremmo dire, trova la sua grande lapide nel finale del film, in cui viene coinvolto per ordine del governatore e con l’avallo dello stesso presidente degli States, persino l’esercito a cimento della mattanza degli immigrati rivoltosi. Il protagonista, lo sceriffo di quella povera gente, non può nulla contro i meccanismi ben oliati del potere e dell’autorità che li sancisce, rischia egli stesso di essere arrestato e giustiziato – in questo assistiamo a due volti della legge, quello più operativo e umile, empiricamente calato nei costumi e nelle tradizioni, nella vita materiale e morale, della povera gente, e quello più in alto, quello che legifera e predispone, apparecchia l’ingiustizia mascherandola di spezie libertarie. Questo aspetto bifronte, si incarna in uno scontro viscerale e intestino che simboleggia due differenti volti dell’America, da sempre in conflitto fra loro e tra i quali non può che prevalere, con la sua falsa retorica, quello più blasonato e direttivo.
Parlavamo di singoli che compongono le figure di un grande affresco, storico nei due sensi della storia collettiva e della storia dei singoli; ma se la storia collettiva è fatta di violenza e aspre verità, non le è da meno la storia ontica dei singoli, la loro guerra privata per l’ottenimento di scopi distanti come le distanze smisurate del paesaggio. Così il contraltare alla battaglia dei corpi, è la battaglia per l’amore, o dell’amore, in cui sono calati i due principali protagonisti maschili che sembrano contendersi – fuori da ogni schema di veridicità perspicua degli esiti – l’amore di una prostituta. Ancora un dilemma, ancora uno schema bifronte incarnato da due volti differenti dell’amore, entrambi appassionati, entrambi sinceri, ma dissimili in tutto il resto. Si viene a configurare tra i tre una interessante triangolazione più simile, per sviluppo pratico e psicologico, a tanto cinema francese della Nouvelle Vague, che non al cinema classico statunitense. La domanda pregressa a questo sviluppo triangolare, trova il suo momento topico in una battuta del film, che si potrebbe così parafrasare: “può una donna amare due diverse persone al medesimo tempo?” La risposta implicita è “sì”, sebbene i colori emotivi e il tenore di questi due amori che convivono, siano assolutamente eterogenei fra loro. Perché l’ambiguità e lo spazio crepuscolare di ciò che è chiamato ad essere decisivo nei rapporti, è quello che sembra interessare Cimino fin da subito.
Da una parte abbiamo Nathan (Christopher Walken) un uomo granitico e laconico, apparentemente non toccato da grandi conflitti morali o dubbi sull’esistenza, ma sostanzialmente libero e ben distante dal ruolo di lacchè che incarnano altri personaggi orbitanti attorno alla comunità privilegiata, e ciononostante, come si evince fin dall’inizio, pur sempre al soldo della compagine imprenditoriale che di lì a poco darà atto al massacro dei poveri immigrati con l’avallo del Governo e l’intervento, perfino, dell’esercito; e che ha stilato una lista nera di soggetti definiti “anarchici” e “delinquenti” comuni ladri di bestiame) – da uccidere per mezzo di killers prezzolati – in cui risulterà presente anche la prostituta da lui amata, la quale accetta, in pagamento per le prestazioni sessuali, anche giovane bestiame, spesso appunto rubato, oltre che contanti. Dall’altra un James (Kris Kristofferson), soggetto più permeabile e romanticamente inquadrabile come figura positiva, in conflitto con la dilagante ingiustizia già descritta, portatore di valori quasi evangelici e di quell’aura illuminata che la sua estrazione accademica vanta ben altrimenti, cioè senza far seguire ad essa un agito, una pratica davvero illuminata e al servizio di una più equa giustizia. Egli è ugualmente libero, ricco di famiglia, ma più simile a un cane sciolto, un outsider che si muove mischiandosi al popolo e partecipando i suoi usi e le sue istanze, senza però appartenere più ad esso che a qualsiasi altro contesto o luogo dell’esistenza… Una sorta di “buono” apolide come può esserlo il mare, che lambisce ogni riva senza appartenere a nessuna. Sembra che vi sia una sorta di codice amicale, tra loro, che impone a entrambi un rispetto profondo per l’altro, un codice non scritto che li porta, forse loro malgrado, ad essere sulla stessa strada sebbene sparigliati dall’amore che provano per la stessa donna. Essi si contendono Ella (la prostituta interpretata da Isabelle Huppert), ma il loro è un duello all’arma bianca, non alla polvere da sparo, così distante dagli stereotipi del western da far pensare, come dicevamo, a tanto cinema del Vecchio Continente. Pare quasi che, in prima battuta, l’analogo possa essere “Jules e Jim” di Truffaut, ma calato, in questo caso, in un’epica tutta americana, in cui la morale e la spinta alle azioni determinanti di una vita siano ridotte all’osso, ma non per questo meno veridiche. Pare che Nathan offra ad Ella delle sicurezze e un amore più domestico che sbrigliato, una protezione non solo ideale ma pratica e un maggiore agio sociale; mentre James incarna ai suoi occhi la passione senza freni, ma vista la natura nomade e più trasversale del personaggio, anche un porto meno sicuro e, soprattutto, propositivo della scelta di abbandonare quelle terre e la sua attività, per viaggiare lontano: scelta che Ella non è disposta a compiere. Ora, le inquadrature che ritraggono James ed Ella delineano un rapporto paritetico e molto lineare, non sbilanciato: campi e controcampi e una omogeneità di spazio entro cui si muovono i loro dialoghi. Mentre con Nathan il discorso è diverso, più asimmetrico, misterioso, pervaso di malinconica rassegnazione sia da parte di Ella sia da parte sua; senza contare che i suoi rapporti fisici con la giovane prostituta sono immancabilmente prezzolati, dice Ella, letteralmente, che ama Nathan, ma ama anche i soldi… La ragazza sembra inscenare una convivenza tutt’altro che dualistica tra una certa rapacità e un certo pragmatismo morale e una dolcezza e carica malinconica infinite… È anch’essa un personaggio ambiguo, stratificato, e il suo atteggiamento non è sbrigativamente classificabile come incoerente. La vera incoerenza, sembra voler rimarcare Cimino, non appartiene ai singoli le cui motivazioni sono un quadro del molteplice e della natura cangiante dello spirito, ma agli attori sociali e governativi che fanno sfoggio di demagogia e violenza, che assoggettano i deboli e sacrificano tutto ad una logica del profitto macchiata di sangue. La colpa, non è ascrivibile ai conflitti esistenziali dei protagonisti, anzi, anarchicamente, essi vivono tutto lo spettro dello sperimentabile in termini di sfumature dello spirito, si dichiarano liberi e agiscono secondo questo principio di libertà che è la sola zona veramente franca del film. La colpa è piuttosto ascrivibile a chi, decidendo per sé, decide anche del destino di molti altri, delle masse, in questo caso delle masse povere e disagiate.
Vorremo concludere dicendo che ciò che porta lo spettatore a interrogarsi, di fronte a questo film, ciò che eccede, ridonda in modo alogico la datità delle immagini con i loro elementi raffigurati in insiemi quasi pittorici, come detto, riconduce forse a quello che Barthes chiamava “senso ottuso” … come per un riverbero duplice, triplo o addirittura plurimo, i contesti rimandano a una percezione che esorbita il contingente raffigurato, qualcosa di “evidente, erratico, ostinato” che ha un quid di ridondante rispetto agli elementi informativi o simbolici enumerabili; il significato di questo continuo rimando risulta forse occulto sia al regista, al suo intento programmatico, sia allo spettatore – almeno in prima battuta. È qualcosa di “onirico” e “sotterraneo” che striscia nei dialoghi e nelle inquadrature, non perfettamente definibile né misurabile, ma che rende unica l’esperienza dello spettatore davanti ai “Cancelli del cielo”, una pellicola atipica che riproduce affreschi indimenticabili e una visione corale, profonda, ancorata a radici che muovono per propaggini nell’humus della natura umana e dell’esperienza violenta del destino dei singoli e di una Nazione.
Massimo Triolo