Trieste, Politeama Rossetti Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Assicurazioni Generali. Dal 1° al 5 maggio 2019
“La classe operaia va in paradiso”, lo spettacolo teatrale dal ritmo serrato, del tutto coerente e funzionale a una struttura complessa molto articolata, trae ispirazione dall’omonimo film di Elio Petri (con la sceneggiatura di Ugo Pirro) uscito nel 1971, quasi cinquant’anni fa.
Lino Guanciale veste oggi i panni di Ludovico “Lulù” Massa, ruolo affidato allora a Gian Maria Volontè. La sua è un’interpretazione potente, fisica: si dà al personaggio con tutto se stesso, offrendogli con slancio la sua generosa umanità, lottando e soffrendo con e per questo operaio stakanovista che si identifica nella macchina alla quale si è volontariamente legato e, senza nessun altro ideale o scopo se non quello di migliorare costantemente i propri tempi di produzione, viene usato dai padroni di una fabbrica lombarda post ‘68 per costringere tutti gli altri ad aumentare i ritmi di lavoro.
Per questo è odiato dai compagni, non ha amici e la compagna con cui vive non riesce a capirlo.
Un incidente, mentre si trova alla pressa, gli provoca la perdita di un dito; da ciò nasce in lui una nuova consapevolezza, ma si ritrova inserito in un altro ingranaggio, di nuovo strumento nelle mani di altri, conteso questa volta tra gli studenti in lotta e i sindacati, presto abbandonato da entrambi.
Uno solo gli sta accanto, come un angelo custode: è Militina, un vecchio operaio uscito da un’istituzione totale, la fabbrica, per entrare in un’altra, il manicomio.
Con lui sogna di occupare, finalmente, il paradiso.
Lo spettacolo mantiene del film lo spirito provocatorio, che rilancia efficacemente attraverso la ricerca di un linguaggio drammaturgico che ben si adatti al soggetto.
La trascrizione dei dialoghi dell’opera originaria costituisce il nucleo centrale della messinscena; da esso Paolo Di Paolo ha creato numerosi percorsi intersecantisi in vario modo e la rete che ne emerge lega in modo sempre più stretto un passato apparentemente superato con il nostro presente confuso, problematico a dir poco, del quale si stenta a vedere una via d’uscita che sia rispettosa dell’umana dignità.
L’intero cast vi partecipa con grande convinzione rendendo virtuosa la dinamica “dell’essere parte di meccanismo” che pervade tutto e dal quale non si sfugge.
Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini intervengono infatti interpretando diversi ruoli con una recitazione efficace e brillante che si pone a metà strada tra il teatro e il cinema, dando così l’impressione di vederli uscire in carne e ossa dallo schermo su cui si sta proiettando il film di Elio Petri.
Tutto concorre a mantener desta l’attenzione del pubblico: la scenografia di Guia Buzzi pone al centro un nastro trasportatore, cuore della catena di montaggio e della vita del protagonista in quanto utile espediente per i cambi di scena; la vivace regia di Claudio Longhi sposta il focus dal palcoscenico alla platea e fin sulla galleria, percorse spesso dagli attori in occasione dei numerosi salti temporali e contestuali alternando lo svolgimento della trama di partenza ai commenti del pubblico contemporaneo alla prima, di quello posteriore di qualche anno fino agli odierni spettatori; a ciò si aggiungono le riflessioni del regista (che vede il film “come un obbligo”, quello di offrire al pubblico la conoscenza diretta della fatica di chi spende la sua vita in fabbrica) e dello scenografo nel corso della produzione e i giudizi di critici, intellettuali, politici e sindacalisti di allora.
La situazione politica attuale è sfiorata con leggerezza, mai affrontata di petto, trattata quasi come un incidente di percorso rispetto a una condizione che va al di là del contingente mostrandosi oggi mutata nella forma ma non nella sostanza rispetto al passato, ai tempi di un miracolo che in fondo fu, purtroppo, soltanto economico.
Allora c’era il cottimo a stritolare gli individui, oggi il precariato; costante rimane la spinta a consumare, oggi forse più subdola perché “virtuale”.
L’alienazione di Lulù resta, devastante come allora: l’operaio di cinquant’anni fa “rappresenta tutti noi”.
Paola Pini