“C’era una volta a… Hollywood”: di tutto, di più, ma…

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Cinema Signorelli, Cortona. Domenica 22 settembre 2019

 Nella sua nona opera – secondo il personale conteggio del regista – Quentin Tarantino ha riversato un tumultuoso fiume di idee, da cui è scaturito il suo film più ambizioso, complesso e difficile. C’era una volta a… Hollywood non ha nemmeno una vera e propria storia: la narrazione procede a scatti e si muove su due linee separate (le vicissitudini della coppia Rick Dalton/Cliff Booth da una parte e la vita di Sharon Tate dall’altra) destinate però inesorabilmente a intersecarsi all’interno di un universo parallelo dove la Storia viene riscritta dal Cinema, e i personaggi di fantasia si mescolano a quelli realmente esistiti.

Omaggio a un particolare periodo storico e culturale (la Hollywood del 1969, gli hippies)? Film sul  mestiere del recitare e sul rapporto umano e professionale, mai davvero esplorato prima, che c’era tra gli attori e i loro stuntman di fiducia in quegli anni? Opera cangiante, che comincia come commedia, diventa thriller e finisce nello splatter intinto di umorismo nero (alla Tarantino, insomma)? Operazione cinefila traboccante di citazioni e autocitazioni a ogni fotogramma? Rievocazione fantastica di un tragico quanto assurdo episodio di cronaca che ha segnato indelebilmente l’immaginario collettivo dell’epoca? Probabilmente tutte queste cose insieme, ma proprio per questo il rischio è che, per  voler essere tutto, C’era una volta a… Hollywood finisca per non essere niente…

Di certo, è un film nato per far discutere e dividere sia il pubblico che la critica. Pur tra momenti di grande cinema (come la sequenza, carica di una tensione quasi tangibile, al ranch della Manson Family), C’era una volta a… Hollywood è un’opera disomogenea e squilibrata, in cui Tarantino, che confida forse eccessivamente nella complicità del suo pubblico, dà l’impressione che il suo magma narrativo in alcuni momenti gli sfugga di mano, diventando ingovernabile. Il ritmo è discontinuo, e alcuni passaggi (come il monologo di Rick nella roulotte) appaiono un po’ forzati. Volutamente provocatoria la demitizzazione di Bruce Lee (di cui pure Tarantino è grande fan), in quegli anni già conosciuto negli States per il suo ruolo di Kato nel telefilm Il calabrone verde ma non ancora “Furore della Cina” di fama mondiale.

Ottima prova per la coppia di stelle Leonardo DiCaprio/Brad Pitt, bravi anche a non pestarsi i piedi (cioè a non rubarsi la scena l’un l’altro). Oltre alla deliziosa Sharon Tate interpretata da Margot Robbie, le partecipazioni di Al Pacino e Kurt Russell (senza dimenticare il contributo di Luke Perry, scomparso recentemente) impreziosiscono un film che, almeno quanto a recitazione, rasenta la perfezione.

Stavolta Tarantino non ha trovato il capolavoro (che manca dai tempi di Bastardi senza gloria, anche se Django Unchained c’era andato vicino), ma il film merita comunque di essere visto e, possibilmente, rivisto: al netto dei difetti e dei nodi irrisolti, C’era una volta a… Hollywood mostra comunque l’innegabile talento (oltre che l’ambizione e la capacità di pensare in grande, doti che condivide col suo idolo Sergio Leone) del regista – sicuramente tra le figure maggiori del Cinema contemporaneo -, che qui riesce a esprimere solo a sprazzi il suo genio. Persa l’immediatezza delle prime opere, Tarantino è ormai definitivamente entrato nella fase della piena maturità artistica, caratterizzata da film sempre più complessi e ricchi sia dal punto di vista tecnico che da quello contenutistico; maturità artistica che, probabilmente, raggiungerà il suo culmine nel decimo e ultimo – salvo ripensamenti – progetto cinematografico tarantiniano, capitolo finale di una carriera non lunghissima né particolarmente prolifica, ma senz’altro di notevole qualità.

Francesco Vignaroli

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