“Eyes Wide Shut” vent’anni dopo: per una rilettura critica dell’ultima pellicola di Kubrick. Di Massimo Triolo

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Un film che procede con rigore formale e freddezza autoptica, quasi extra-corporea proprio nel gesto di filmare soprattutto i corpi – denudati nel sogno, ovvero privati di ciò che vestono necessariamente come adattati e integrati, per vagare nudi col fardello di una colpa quasi adamitica di infrazione della Legge entro il giardino incantato della morale borghese; così come nella realtà, nella quale svestirsi e rivestirsi nella prigionia del proprio ruolo: il termine inglese “habit” sta sia per costume morale che per abito da indossare –, un film che assurge, su questa stessa via, a parabola morale sul rapporto intrinseco tra sesso e potere, e sembra dichiarare a chiare lettere che il desiderio, in ogni sua espressione designa uno spazio che è politico, se politica può dirsi la sfera del rapporto con l’Altro nella sua espressione di limite e territorio delle identità. Non a caso di identità si tratta quando la carne, questo atavico perturbante che si afferma attraverso il desiderio e nega attraverso il senso di colpa, senza soluzione di continuità tra la dimensione libidica – ludica diremmo, come annuncia il finale significativamente ambientato nel più grande negozio di giocattoli di New York – e il divieto imposto alla sua definitiva, agapica liberazione, non può che passare attraverso la maschera: quella del ruolo, come accennato, della collocazione sociale e di censo, e quella liberatoria che fatalmente finisce per non inscenare altro che il suo veridico rapporto con la morte come limite incombente: e all’orizzonte del progettare (Alice confessa al marito, che un incontro occasionale aveva rischiato di essere la tomba del suo legame matrimoniale, della sua responsabilità genitoriale e infine, ancora più eloquentemente, del suo futuro) e alla libido cui immangono zone oscure e altre rispetto al Principio del Piacere di freudiana memoria e affermatore della spinta alla vita. Paradigmatica è la mancata consumazione dell’atto animale di possesso spogliato dai dettami di un ipertrofico Super Io, che non si tramuta in un immediato contrappasso all’osare del protagonista (contrazione dell’Aids) solo per un soffio e sulla via di un destino che egli semplicemente incarna passivamente.

Questo film è donna fin dall’inizio, ed è la donna che nel film “custodisce” una reale forma di consapevolezza presso il proprio cammino (proprio come quello che consegue l’Alice di Carroll di cui la moglie del protagonista, interpretata da una Nicole Kidman mai così istrionica, porta lo stesso nome); in modo autentico e tale da non negoziare la propria discrezionalità valoriale, operando cioè delle vere scelte di non contaminazione con un mondo che alletta con suasive libertà sfrenate, per poi violare puntualmente l’unica vera forma di libertà rimasta ai corpi per non essere solo carne ma anche anima… O coscienza illuministicamente intesa. La domanda che viene da porsi e se per Coscienza Kubrick intenda, alla maniera kantiana, una sorta di motore primo razionale e autarchicamente formulatore di a priori pratico-morali che non siano condizionati da elementi “sensuali” e contingenti, occasionali e tali da porre il prossimo, e in definitiva l’umano, come mezzo e non come fine ultimo, come oggetto e non come soggetto universalmente inteso. Vi sarebbero, in questo caso, le tracce di una morale evangelica che Schopenhauer imputa a Kant essere surrettizia e tale da generare un cortocircuito tra statuto teoretico-trascendentale assegnato all’ambito morale e contenuto empirico. Il regista sembra piuttosto orientato ad affermare che la realtà tutta è come il Velo di Maya schopenhaueriano, ovvero un sogno, un contenuto onirico e ingannevole, che può essere squarciato solo in ragione dell’urgenza del corpo come forma di cieca volontà di autoaffermazione, inconscia e irrazionale, apportatrice di danno e dolore proprio nel gesto di affermare sé. Approfondiremo presto il discorso concernente carne e corpo; ma torniamo adesso al protagonista Cruise (Bill Hartford nel film), medico e upperclassman integrato e ben inserito: egli appare invece una maschera incapace di cambiare maschera, trasportato in un mondo ipnagogico e allucinato sul quale non ha e non vuole avere un vero controllo, esattamente come capita in un incubo in cui si è chiamati a fuggire il pericolo ma ci si trovi immobilizzati e incapaci di evitarlo correndone via.  La curiosità di Bill diventa “Hybris” quando il personaggio anodino e borghesemente frustrato che interpreta, varca il cancello che introduce alla dimensione orgiastica e satanicamente manipolatoria dei corpi – raffigurata in sterili atti di copula meccanica con raffreddata minuzia e crudezza – e delle vite appunto destinate al proprio ruolo senza alcun appello: qui si hanno niente altro che carnefici che abitano il loro spazio oltremorale e vittime da esso possedute e designate tali. Il potere si maschera, niente di nuovo, per poter essere se stesso fino all’insulto di quanto vi è di umano (la carne come confine inviolabile e la sovranità sul proprio corpo) ogni forma di umano reificando a oggetto di un atto di dominio che disvela la sua dimensione sadica fino alla rarefazione di ogni legge morale; avvalendosi del rito per perpetrare la liturgia del possesso senza altra ragione a sé che non l’uso – ossessione tipica dell’orizzonte capitalistico – e la profanazione del corpo-vittima. In questo film le vere vittime agnine sono infatti proprio i corpi, con ciò che subiscono, assieme all’orizzonte della scelta, ciò che li potrebbe onorare e riscattare dalla legge del mero usa-e-getta che li tiene in scacco: gli occhi sono ben chiusi e tali devono restare, perché il potere, quello vero, tiene nell’ombra le fila di un destino doppiamente castrato: cioè psicanaliticamente coincidente con un inconscio non liberato, né liberabile se non in segreto (maschera qui non significa altro, per Bill, che calco di un desiderio non transustanziato, ancora eterodiretto e irrigidito in “cattiva maschera”: egli è passivo o reattivo, non vitale e liberamente creativo di sé e del proprio destino e senso nel mondo, tale cioè da poter liberare un mutamento incessante che incessantemente veste maschere realizzando una nietzschiana coincidenza tra essenza e esistenza: si nasconde dietro la maschera invece che interpretarla in modo dionisiaco); una liberazione negata attraverso un’esistenza soggetta alla consunzione della libido fino al suo ripetersi entro l’ineludibile schema del ruolo sociale e relazionale che è vettore di una grandezza virtuale, ovvero solo di variabile intensità e non di cambiata natura o sostanza (specchio).

Quello del gesto registico di Kubrik è un rasoio di Ockham presso la definitiva questione del rapporto tra una società repressiva in cui dover celare la forza annichilente del desiderio, costringendola in rituali consentiti e consolidati dal rapporto di classe, e la cooptazione di esso tra gli stratagemmi più riusciti per la conservazione che il Potere perpetra di se stesso facendone esca. Il cammino del protagonista maschile, come in una fiaba antica, è disseminato di divieti che egli puntualmente infrange, ma se nelle fiabe il discorso morale si presenta attraverso il divieto quale postulato assoluto, e la sua infrazione quale generatrice di un necessario contrappasso, qui il discorso si fa illuministicamente un teorema perfetto e empiricamente fondato sulla natura narcisistica e sterile propria di un Sistema elitario e manipolatore e del suo scempio sistematico, alieno a ogni forma di empatia, che compie per ripetere se stesso, presso tutto ciò che non sia l’arroganza di un arbitrio inflittivo che rasenta l’astratto; e tutto questo facendo leva sulla fragilità dei corpi e del sentimento e trasformandoli in altrettante leve di ricatto. Si è detto ingiustamente del film, essere un frigido esercizio formale e estetico, ma l’obiettivo di Kubrick, più verosimilmente, era proprio quello di dissolvere ogni pathos nella forma di una raggelante cronaca che elude ogni possibilità di immedesimazione dello spettatore in quelli che rimangono dei fatti, privandolo del ruolo classico a cui è consegnato: ovvero parteggiare per qualcuno o qualcosa. Le scelte cromatiche stesse, si presentano come un’esatta geometria del blu, dell’arancio e del rosso. Dove il blu è il gelo del sentimento, la deriva della fedeltà e della concordia, l’arancio l’ultima scialuppa di domestici tepori che sono però sistematicamente traditi e dei quali la ripetuta comparsa dichiara già la natura frammentata, eteronoma e artificiale; il rosso, infine, è la sessualità sfrenata nel suo hic et nunc senza la durée di tracce morali.

https://www.youtube.com/watch?v=QiYe8tNz0FI

Se la parola di ingresso alle orgiastiche stanze del Potere è “Fidelio” – proprio come il titolo dell’Opera di Beethoven, in cui è la donna camuffata da uomo che salva il proprio amato liberandolo dalle catene – e Bill sembra consegnare a pegno del suo ingresso l’amore e la fedeltà coniugale, assieme alla testimonianza stessa del perseverare della donna nel farsi custode della vita come valore sacro, la parola segreta per uscirne indenne rimane inespressa, anzi semplicemente non esiste, e questo perché il viaggio verso la compromissione di una volontà liberata dal ricatto è un biglietto di sola andata verso una fine tragicamente fatale, una scelta irreversibile per Bill –che è intruso entro il cerchio degli iniziati e in uno statuto di non-esistenza o di non-ruolo: fuori dalla propria rassicurante cellula-famiglia e alle soglie di un altro legame di sangue di cui ignora le spietate regole –, irreversibile se non per mezzo di un sacrificio, anch’esso di sangue, il cui nome è ancora “donna”. Ed è ancora una donna che sceglie in luogo del protagonista maschile – nuovamente passivo, infantile spettatore delle proprie inconsapevoli e corrive scelte –, e sceglie il sacrificio di sé per la sua salvezza. Una vita per una vita, nel linguaggio massonico dei cui simboli, anche esoterici, è punteggiato il film. Finale di pellicola affidato allo spiccio “Let’s fuck” di Alice: più edonistico che eudemonistico. L’atto sessuale allontana il “Fantasma” lacaniano?

Massimo Triolo

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