Al Teatro Galli di Rimini fino al 9 gennaio 2020
Nelle opere di August Strindberg la lotta tra uomo e donna è da sempre al centro dei suoi drammi. L’autore svedese ci ha abituati a intravvedere nella figura femminile il carnefice e nel maschio la vittima. Quest’ultimo ne esce spesso dilaniato, distrutto idealmente, socialmente e psicologicamente dalla prima, non senza gravi conseguenze. Ne vien fuori una visione di incomunicabilità tra gli esseri, lo spregio nei confronti di una società dominata dalle passioni meno nobili e governata dalla brutale prevalenza dei più forti.
Diversamente da quanto avviene in altri drammi teatrali, ne La signorina Julie l’universo strindberghiano viene sovvertito e a prevalere non è più la donna (seppur in un primo momento possa apparire il contrario) bensì il maschio. La vicenda – nel testo originale del drammaturgo svedese – si svolge in Inghilterra in una estate di fine Ottocento durante la festa di San Giovanni; nel dramma coprodotto da Gabriella Pession nell’adattamento teatrale di Patrick Marber nella notte di fine aprile del ’45 durante la liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
Si tratta di un’opera molto complessa nella sua struttura perché ciò che viene calcato non è tanto quanto succede in sé e per sé, ma il profilo psicologico di ogni personaggio. Sul palco solo tre attori: Gabriella Pession, nelle vesti della signorina Giulia; Lino Guanciale, nelle vesti di Gianni, l’autista di fiducia del conte e padre della signorina Giulia, e Roberta Lidia De Stefano nelle vesti della cuoca Cristina.
L’intera scena – unico atto della durata di un’ora e quarantacinque minuti – si svolge in una cucina.
Gianni ha appena finito di accompagnare il conte nel centro di Milano e, di ritorno nella villa del padrone, entra in cucina per festeggiare con Cristina, sua promessa sposa. Tra uno scambio e l’altro di battute Gianni esprime tutta la sua disapprovazione nei confronti della signorina Giulia rimasta sola nella villa a festeggiare con la servitù tra canti e balli in giardino. Di contro, Cristina cerca di difenderla adducendo come scusa che la signorina è appena stata lasciata dal suo ex fidanzato e se è un po’ fuori di testa è anche per via del ciclo mestruale. Qualche minuto dopo irrompe sulla scena la signorina Giulia ordinando a Gianni di ballare con lei. Di malavoglia lui è costretto ad accettare. Durante l’arco della serata la signorina Giulia, complice anche l’alcool, tenterà di provocare e sedurre Gianni persino sotto gli occhi della sua futura sposa la quale, poco dopo, sparirà dalle scene salvo ricomparire sul finale.
Nell’intenzione di Strindberg, ripresa in maniera esasperata da Marber, l’attenzione è focalizzata sui due protagonisti della storia: Giulia e Gianni. A loro l’arduo compito di dominare la scena, con i dialoghi e con le azioni. Le analogie e le differenze tra i personaggi di Strindberg e Marber sono equamente spartite. Abbiamo una signorina Giulia indisponente, prevaricatrice, irritante e un Gianni falsamente accomodante e falsamente vittima. La distinzione della protagonista in After Miss Julie sta da parte della Pession nell’aver offerto al suo personaggio una nota più aggressiva, meno innocente e meno fragile della Julie di Strindberg. Ciò non avviene con il Gianni di Lino Guanciale, riportato fedelmente all’originale sulle scene. Anche i dialoghi sono molto più accesi, i toni più forti e i gesti esagerati. Ciò non denota affatto un deprezzamento dell’opera, anzi, ma ne ingigandisce il valore e il contenuto attribuendogli maggior profondità di quanto già non ne avesse avuto in passato.
Anche le scene più spinte hanno un loro significato, come anche il sangue nella duplice componente di vita o di morte. Lo ritroviamo tre volte in scena: il sangue mestruale di cui parla Cristina riferendosi al ciclo della signorina Giulia, il sangue della perduta verginità e purezza della protagonista durante la notte trascorsa con Gianni e il sangue che deriva dall’uccisione dell’uccellino della signorina Giulia per mano sempre di Gianni. Un colore rosso vivo (di cui sono laccate anche le scarpe e la borsetta della padrona di casa) che traspare sulla sottoveste di Giulia, sulle mani e sugli abiti dei tre personaggi e che calerà un’ombra scura sul finire della tragedia. E poi c’è Cristina: lì dove nel testo strindberghiano funge solo da ago della bilancia qui la ritroviamo complice del destino che sta per abbattersi su tutti e tre; è una Cristina che ha voce in capitolo, che non è messa lì solo da contorno a cui una bravissima De Stefano ha saputo dare peso e rendere viva (resterà sempre scolpita la scena in cui sembra quasi un animale ferito che vaga all’alba per la cucina della casa).
In La signorina Julie riaffiora non solo la misoginia di August Strindberg nel senso proprio del termine, ma anche un misoginismo accompagnato agli impulsi di un più vasto disprezzo che aggredisce tutta una classe o casta sociale (la nobiltà). Nella sua omonima versione teatrale italiana invece, la “guerra dei mondi” sembra imperversare più sulla ancora attualissima differenza tra uomo e donna: la seconda che sembra avere la meglio ma che, alla fine, avrà la peggio annientata nella sua identità e corporeità da un universo dominato prevalentemente al maschile e dal maschio. Un universo in cui non sembra esserci spazio per le donne, dove anche Cristina, in un certo qual modo vien messa a tacere.
Ed è forse su quest’ultimo aspetto che ha voluto puntare Gabriella Pession, che di After Miss Julie ha comprato i diritti e di cui è coproduttrice assieme al Teatro Franco Parenti di Milano, regalando al pubblico un’eccellente e sentita interpretazione della signorina Giulia, commossa e stanca al calar del sipario.
Costanza Carla Iannacone