“Gli anni più belli” tra nostalgia e rimpianto, la recensione del nuovo film di Muccino

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Gli anni più belli, dodicesimo film di Gabriele Muccino,  è un film che attraversa le vite di Giulio (Pierfrancesco Favino), Gemma (Micaela Ramazzotti), Paolo (Kim Rossi Stuart) e Riccardo (Claudio Santamaria).

L’amicizia della componente maschile del gruppo (completato, in seguito, dalla presenza insostituibile di Gemma) inizia così, tra colpi d’arma da fuoco, urla, strepiti e confusione, negli anni Ottanta, e prosegue tenace, a dispetto del trascorrere del tempo e delle spesso opposte traiettorie personali, lungo un quarantennio denso di accadimenti, di rivoluzioni private e collettive che non incidono più di tanto sull’intima essenza di chi li vive.

Trasportando il racconto del quotidiano (amori, lavori, famiglie vecchie e nuove, crisi e risalite, andate e ritorni) entro una cornice storica più ampia, Muccino compone – perfettamente in linea con la maggior parte delle sue opere precedenti, da L’ultimo bacio (2001) passando per Baciami ancora (2010) e A casa tutti bene (2018) – il ritratto di una generazione, quella dei cinquantenni di oggi, più affezionata ai sogni che agli ideali, la prima a fare le spese di cambiamenti sociali e di costumi che non ha avuto modo di conoscere nel loro originarsi.

Coadiuvato dalla sceneggiatura di Paolo Costella (già collaboratore di Ferreri, Verdone e del Paolo Genovese di Perfetti sconosciuti), dalle musiche di Nicola Piovani, dalle canzonette pop dei Simple Minds ma anche di Bennato e Baglioni, che firma il brano che titola il film, oltre che da un cast di attori totalmente calati nei propri personaggi, Muccino dà vita a un affresco popolare, a un mosaico a tratti furbescamente demagogico, zeppo di romanità, folklore, odi e amori, luci e ombre, sussurri e grida (con una propensione per queste ultime), con quel pizzico di retorica dei sentimenti che contraddistingue il suo stile sin dagli esordi.

Eppure, qui, una malinconica dolcezza al fondo stempera i cromatismi troppo accesi (presenti anche a livello visivo), li annacqua nella sincerità di una confessione oscillante tra nostalgia e rimpianto.

Raccontare la Storia, la società e gli uomini che la abitano usando il filtro del sentimento e dell’emozione, costituisce una ben precisa scelta drammaturgica: non sempre sbagliata.

Si ringrazia il Cinema Modernissimo di Mapoli (Zona Piazza Dante) per la visione del film Voto: 7+/10

Marco Assante

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