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A tu per tu con Giuseppe Garau. Per una vita “crepuscolare” nel segno dell’Arte e della Scenografica

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Giuseppe Garau è Artista e Scenografo. Fa parte di quella generazione custode di una sapienza creativa che ormai si sta estinguendo. Formatosi in modo personale, perseguendo la sua natura, che egli chiama “crepuscolare”, Garau è stato protagonista in diverse produzioni, sia teatrali che cinematografiche. Ascoltiamolo in questa intervista, dove emerge la sua indole completa e autentica.

Ciao Giuseppe, per cominciare potresti brevemente parlarmi della tua formazione?

Beh, la mia formazione è iniziata a circa 9 anni, mi venne regalato un libro sull’occhio umano e sulla visione, iniziai a fare esperimenti di illuminazione con candele e torce elettriche, mi interessavano gli effetti di luce, nel contempo disegnavo scheletri e leggevo testi di anatomia, mi venne poi regalata una lanterna magica e successivamente un proiettore super 8. Mia madre però voleva che diventassi un medico, poi si è rassegnata. Verso i 12 o i 13 anni scovai nell’armadio di mio fratello maggiore tutta una serie di fumetti horror, che insieme alla lettura di Poe e Lovecraft fecero il resto. Al Liceo artistico approfondii lo studio dell’architettura gotica, in particolare inglese, quegli anni “tenebrosi” li trascorsi tra visite a musei, strane letture e film horror della Hammer, dell’Amicus e della factory di Corman e dell’inarrivabile Vincent Price. All’Accademia mi detestavano ed ebbi problemi con alcuni docenti, perché scoprirono che frequentavo vecchi macchinisti e realizzatori del Teatro Regio di Torino, è da loro che ho appreso il mestiere. Mi sono laureato solo per far piacere ai miei genitori. Un’altra scuola è stata la pubblicità, lì non valgono né diplomi né attestati… contano solo le effettive capacità. Questa è in sintesi della mia formazione professionale e culturale.

Siamo nel 1993 e appare The circle. A molti questo titolo non dirà niente, ma se lo guarderete capirete l’importanza di questo prodotto. Si tratta di un cortometraggio sulla droga. Ma oltre la droga, permette allo spettatore d’immergersi in un vero e proprio mondo onirico – una vera opera di video-arte. È incredibile come nel 1993 tu abbia creato una scenografia da fare invidia ai migliori scenografi degli anni Sessanta e Settanta, creando un universo teatrale horror senza l’ausilio di effetti speciali. Ma come hai fatto? Come hai lavorato a questo splendido Corto?

The Circle: quasi un anno di lavoro per circa 7 minuti di visione. Con Flavio Moretti abbiamo fatto una ricerca sull’iconografia dantesca, in primis le illustrazioni di Doré, poi io ho preferito certe immagini del cinema espressionista, se pensi a I Nibelunghi di Lang qualche riferimento c’è. Non è stato semplice nemmeno per il bravissimo direttore della fotografia Pietro Sciortino, e io avevo il gravoso compito di fare la supervisione e la direzione artistica. Insieme a Moretti si è deciso di dipingere tutto il set in bianco e nero, ho dovuto seguire i pittori di scena, per fortuna del makeup degli attori si è occupato Michele Guaschino, uno che ha studiato con Rick Baker negli Stati Uniti. Tutto questo in 35 millimetri, quindi professionale, in uno dei più grandi teatri di posa di allora nel Nord Italia. Per la “panoramica” della siringa ho realizzato, con l’aiuto dei tecnici, una siringona lunga, se ben ricordo un metro e mezzo; un’altra ricostruzione della siringa è stata fatta per la ripresa all’interno del suo cilindro, col pistone che avanza. La stanza del drogato era quella di un amico di Flavio, opportunamente adattata. Sì, un lavoraccio, però ne è valsa la pena. È persino andato alla 50 Mostra del Cinema di Venezia, oltre a ottenere positive recensioni su Ciak ed altre riviste. Una fatica immane, ma ci ha permesso di ottenere i finanziamenti per Il Magico Natale di Rupert.

Poi all’inizio del 2000 arriva, appunto, il film Il Magico Natale di Rupert. Anche questo non è molto conosciuto, eppure durante la trasmissione Cinematografo di Marzullo viene addirittura definito un classico che tutti dovrebbero vedere! Come hai lavorato a questo film?

Il Magico Natale di Rupert all’ inizio non doveva esser altro che un proseguimento di Troppi guai per Wilbur. Ma poi le cose sono andate diversamente, perché chi mette i soldi, ahinoi, detta legge e impone attori, ecc. In questo caso io ho fatto lo scenografo proprio come si fa a Roma e a Cinecittà, mi spiego meglio: a Torino lo scenografo coincide spesso con lo scenotecnico, ovvero colui che realizza manualmente le scenografie. Benché i set siano stati allestiti a Torino, io praticamente ho fatto l’architetto, con ricerche iniziali su cittadine e villaggi della provincia statunitense, con un occhio a Disney e a certi fumetti stile Zio Tibia degli anni ’50 e ’60; poi i bozzetti e i plastici per decidere riprese e movimenti di macchina insieme a Flavio e al direttore della fotografia (sempre Sciortino), indi i progetti esecutivi per i realizzatori, quelli che a Roma chiamano i “costruttivi”), insieme a schemi per l’arredamento e la decorazione. Per le scene con gli alieni (interpretati da performer all’interno di quei costumi – scafandri) sono stati ricostruiti dei particolari della casa di Rupert in scala gigante. Gli alieni che distruggono la casa sono opera di Michele Guaschino, l’unica scena in digitale è quella all’interno dell’astronave dell’alieno bambino e dei genitori che buttano nello spazio i giocattoli con i soldatini che distruggeranno la casa di Rupert. Il resto è proprio artigianato cinematografico anni ’50 e ’60, soprattutto per una scelta estetica di Flavio. Le riprese sono state fatte nell’estate del 1999, ma il film, per le solite lungaggini burocratiche, e stato distribuito dall’Istituto Luce nelle sale soltanto a dicembre del 2004!

Hai lavorato molto anche per il teatro, in particolare per i musical. Con Il Piccolo Principe ed Excalibur hai indagato degli universi più leggeri e adatti ai più giovani, quindi immagino che tu abbia dovuto approcciarti in modo diverso rispetto alle altre produzioni.

Excalibur e Il piccolo principe sono due musical scritti e diretti da Mario Restagno per l’ACCADEMIA DELLO SPETTACOLO di Torino. Venendo da ambienti cattolici, ma tutt’altro che bigotto e integralista, Restagno è un autore e regista che ha sempre avuto a cuore il problema della formazione e dell’educazione dei giovani, oltre ad aver fondato una scuola per attori, che è un punto fondamentale di riferimento a Torino e in Italia. Non è stato facile, inizialmente, lavorare con lui, ma. superate le prime difficoltà, si è creato un buon rapporto che ormai dura da 16 anni. Dal punto di vista puramente tecnico non ho avuto alcun problema, anche perché la mia formazione è avvenuta sui palcoscenici teatrali. L’ostacolo principale da superare, per me, è soprattutto connesso alla differenza di sensibilità tra me e Mario: io sono ombroso e “crepuscolare”, se mi concedi l’espressione, lui è solare e sempre positivo. Certamente per i suoi musical per un pubblico giovane (ma non per questo superficiali, anzi) ho veramente dovuto “alleggerire” la cupezza del mio stile, decisamente “dark”, ma alla fine è stato come ritrovare un aspetto più gioioso della mia personalità, forse legato alla mia primissima infanzia. Tuttavia, se osservi più attentamente le atmosfere da me ricreate, puoi ravvisare certi particolari tipici del mio stile, ad esempio la finestra neogotica in Excalibur, per non parlare della cupa foresta nel fondale del secondo atto. Il piccolo principe è stato un lavoro molto stimolante, forse una delle ambientazioni più “allegre” che io abbia realizzato. Al regista è piaciuto molto e ha appeso a una parete della sua scuola il motore di quel biplano.

Oltre scenografo, sei anche Artista. Qual è la tua concezione di Arte?

È una bella domandina! Vediamo un po’…
La concezione di Arte… da giovane pensavo di sapere cosa fosse, ne discutevo con amici e altri artisti, poi mi sono reso conto che è praticamente impossibile definirla, anche se questa domanda è uno degli eterni dilemmi dell’umanità, o meglio di tutti coloro che hanno una certa cultura, oltre al cervello. Oggi, alla soglia dei sessant’anni, posso solo interrogarmi su quanto ho fatto, se sono stato e sarò un artista autentico. Ma anche in questo caso mi viene in mente un’altra domanda: cosa significa, soprattutto oggi, essere un artista autentico. Mi rendo conto che non è corretto rispondere a una domanda con un’altra domanda!

E adesso, cosa stai facendo? Hai dei progetti per il futuro?

I progetti per il futuro? Molti, sicuramente di pittura, che ho sempre coltivato tra un lavoro e l’altro. Innanzitutto una serie di installazioni in spazi museali, come quella allestita al Museo della Fantascienza di Torino, tuttora fruibile. Ma il progetto che più mi sta a cuore è quello sui Sette Peccati Capitali, molto ambizioso, e pretenzioso se vuoi; si tratta di una serie di installazioni sul tema dei Sette Peccati Capitali, ma senza intenti moralisti e tantomeno “edificanti”.
Si tratta, semmai, di una serie di provocazioni: cos’è il peccato, chi è oggi il peccatore? Lungi dal voler dare risposte a questi eterni interrogativi, queste installazioni sono semmai delle provocazioni per coloro che si credono dei santi senza peccato, e per quanti si considerano peccatori o si atteggiano a satanisti per puro gusto della trasgressione, fine a se stessa.
Mi rendo conto che non sarà un’operazione semplice, non sarà facile evitare incomprensioni e travisamenti da parte di pubblico e critica. Tuttavia voglio provarci; oggi gli artisti non possono più limitarsi al bel dipinto, all’immagine rassicurante di un bel nudo o di un paesaggio bucolico. Bisogna creare qualcosa che abbia un forte impatto dal punto di vista visivo ed emotivo. Qualcuno mi ha chiesto perché ho deciso di far cose del genere, gli ho semplicemente risposto: perché ho le capacità per farlo. Può essere una risposta, secondo me il mondo dell’arte contemporanea è dominato da furbastri e mistificatori. Io credo, magari con presunzione, ma in buona fede, di non far parte di questa schiera; ma se qualcuno ha deciso di annoverarmi fra questi cialtroni faccia pure. Io ho la coscienza tranquilla!

Stefano Duranti Poccetti

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