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Il Nosferatu di Herzog: gotico magistrale, formalmente impeccabile e concettualmente profondo

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La pellicola (Nosferatu, Phantom Der Nacht, 1979) vanta da subito atmosfere improntate a una sorta di naturalismo visivo e narrativo che pone l’aspetto metafisico dell’intera vicenda su un piano di rappresentazione concreta in cui il visibile è l’evidenza stessa della materia narrata e in cui ombra e luce danno la fisionomia esatta e plastica di uno spessore rappresentativo che si avvale spesso di un caravaggesco fondale nero da cui emergono in luce le apparizioni del vampiro. Contribuiscono all’atmosfera morbosa e intensamente suggestiva le musiche ipnotiche e stranianti dei Popol Vuh, esempio perfetto di Kraut-rock psichedelico che evoca la dimensione del sacro (là dove sussiste un doppio significato relativamente al significato di origine di Sacer, parole latina che definisce anche ciò che è “maledetto”) con cupi cori e note dilatate e avvolgenti. Il vampiro – interpretato da uno struggente e intenso Klaus Kinski – è una figura triste e afflitta dal sopravvivere al passare del tempo che è la somma di piccoli, futili e ripetitivi gesti di una liturgia “anemica” della solitudine e della dannazione. Ora, va considerato che il sangue è soprattutto memoria filogenetica, e la brama che ha di esso lo spettrale protagonista sembra essere il tentativo di non lasciar morire nell’oblio ogni suo ripetuto gesto di una catena apparentemente infinita e uguale a se stessa; impoverita e dissanguata dal ripetersi senza tregua che segna una seriale figliata dell’uguale in luogo dell’identico della sua persona, destinata a veder morire ogni sorgivo progetto perché annullato dall’impossibilità dell’impossibilità – per rivisitare Heidegger e la sua visione esistenzialista che pone la morte come limite costante di un’esistenza e la spinta progettuale come controparte dell’annullamento. Ma il film è anche un perfetto sposalizio di Eros e Thanatos, là dove l’ amore verso una virginale creatura eterea – che sembra quasi uno dei personaggi femminili al centro della narrativa di Poe -, infrange il ripetersi dell’uguale in virtù di una dimensione erotica in cui il desiderio riporta vigore e volontà di conseguire una nuova identità e prospettiva esistenziale a quella che era stata da sempre, per il vampiro, una forma di morte in vita o di vita morente senza il beneficio dell’annullamento, il beneficio di un limite che segni l’autenticità e il carattere di non reversibilità della scelta; la quale sussiste solo, kantianamente, in un continuum di tempo limitato e, appunto, irreversibile. Nosferatu è una figura sola e romanticamente dannata, in lui sopravvive l’istinto del cacciatore e una sorta di nobile indolenza presso le umane vicende di cui non può più fare parte se non attraverso il legame con quella creatura che brama e rappresenta la preda per eccellenza: ovvero una preda innocente e pura che possa, forse, vincere sulla natura decadente e corrotta dell’esistenza del vampiro, segnata dal disincanto e flebile come una fiammella vitale sempre sul punto di estinguersi ma senza la benedizione di poterlo fare . Il “Non Morto” è lo scandalo del corrompimento, la “pietra d’inciampo” propria lato oscuro di una natura che sa essere nefasta e contaminare e distrugge la vita stessa, ma non può prescindere da essa dovendola negare per sussistere in forma di male; non a caso al suo arrivo nel paesello di origine della concupita, egli si manifesta in forma di peste (la morte nera), e come colui che governa le leggi più oscure del creato e rifugge la luce quale elemento apollineo e epifanico di una divinità che gli è acerrima nemica: i simboli di comunione con essa, come il crocefisso, bastano a recargli danno in quanto un simbolo è sempre più di un simulacro vuoto o feticistico, ma il rinnovamento di un patto agapico che è fautore di Bene. È proprio l’agape della carne ad attrarre morbosamente il vampiro, nonché la conquista, come detto, di una preda pura e innocente, l’esatto contrario di ciò a cui egli è costretto: una vita nell’ombra e nell’oscurità che vive solo suggendo quel sangue negatore dell’oblio di cui dicevamo. La sequenza dei banchetti, delle crapule e delle lascive fornicazioni nella piazza del paesello plutonico teatro di una fine imminente (la peste è già ovunque), sono da antologia: non esiste riparo alla morte e alla corruzione della carne e perciò stesso l’elemento del desiderio sensuale e edonistico ha il suo canto del cigno nell’eccesso e nel vizio, creando un ossimoro tra vita e morte che non si risolve dialetticamente e anzi ha la forma di una ferita aperta che non guarisce: una sorta di emorragia della vita stessa verso il suo fatale esaurirsi. Alla luce naturale delle riprese diurne si contrappone un freddo blu che taglia di netto il buio nelle apparizioni notturne di Nosferatu, tra le quali v’è la prima visita nella dimora della protagonista femminile che offre una sequenza di impareggiabile pregnanza concettuale e potenza visiva, in cui è l’ombra del braccio e delle grinfie del vampiro a precedere, allungandosi per degli istanti che hanno quasi il peso di una moviola ma senza avvalersene, l’avvicinarsi di esso a avvolgere in una carezza quasi erotica il volto pallente della Adjani. Come a significare che la natura reale del vampiro è impalpabile e oscura, un’illusione appena di vita e esistenza, ma anche che la sua natura è fatta di ombra che sussiste metafisicamente in assenza di luce, più vera di un’ombra stessa ma meno veridica della luce che in natura dovrebbe darle vita, risalto e statuto di esistenza solo in virtù di sé. In virtù della profonda solitudine che tiene in scacco il vampiro e del suo amore degno di un perfetto personaggio romantico, segnato da un fatalismo autodistruttivo nel finale della pellicola, possiamo affermare a buon diritto che se la storia conserva un carattere di orrore che trova la sua scaturigine su un piano di orrore metafisico, il personaggio di Nosferatu è anche profondamente umano in quanto sperimenta una forma di amore che è la sola possibilità di sfuggire a una morte che vive ma che, nel momento stesso di un sentore appena di possesso carnale, detta alla sua esistenza un’inconscia forma di cupio dissolvi. Unitamente a questo egli sembra vivere tutto il vuoto, il senso di scacco, l’angoscia e l’apparente insignificanza di una vita rappresentata con suggestioni quasi irrazionaliste e esistenzialiste, che inscenano un’apparente vuoto di senso dell’esistere entro una natura orba e brutale, orfana di un Dio e figlia di un vuoto ontologico presso la ragione stessa dell’esistere. Come scriveva Sartre: «ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione».

Massimo Triolo

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