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“Chappaqua”: un film, due colonne: una storia da raccontare

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Sì, va bene, c’era prima Sun Ra. Ma qui il discorso si sdoppia, raddoppia. C’è una colonna sonora scartata, quella di Ornette Coleman. E c’è un lavoro ufficiale, quello di Ravi Shankar. E questo è un grande rammarico, soprattutto per la storia della musica. Ed è probabile che abbia infatti influito parecchio nella carriera di Ornette Coleman. Impedendogli di sfondare negli ambienti della nuova cultura americana, prevalentemente bianca. È possibile che abbia anche contribuito a continuare a fare del jazz un mondo a parte, irrelato e non communicante con altre istanze culturali. E di fatto ha impedito l’esatta percezione del jazz e il suo peso nella costruzione delle nascenti free forms del nuovo rock bianco degli anni sessanta.
Aver avuto cioè la possibilità di collegare direttamente, tramite le immagini di un film, il jazz di Coleman ai tropi espositivi di cui Ginsberg era una delle cime – la beat generation – avrebbe potuto portare il jazz di fronte a un pubblico più vasto ben prima dei lavori di fusione di Miles Davis.
Ornette Coleman ha di fatto dimostrato in musica la perfezione del passaggio e del travaso creativo da Charlie Parker a Jack Kerouac e a tutto ciò che ne è conseguito. Il fatto quindi di aver tolto alla fine il lavoro di Coleman dal master finale della pellicola, ha in qualche misura destituito il jazz di tutta la sua fragrante importanza nella creazione della musica degli anni sessanta, seconda metà. O in qualche misura ne ha impedito la comprensione. Ha impedito di capire tutta l’importanza della musica jazz nel nuovo rock bianco. Con Chappaqua Suite siamo di fatto nel ’66. Diamo i natali al free jazz con Chappaqua Suite di Ornette Coleman. Ma c’è una sorpresa. La colonna sonora ufficiale è di Ravi Shankar. E il discorso alla fine è semmai affatto più radicale. Esce dalla dicotomia tra bianchi e neri. Colloca la nuova cultura americana in un insieme creativo trascendentale e all’interno di una tradizione millenaria. Lo scatto è audace. Il risultato è monumentale, sulla scia dei lavori di Alan Watts. E anche qui siamo parecchio in anticipo sui tempi mainstream dei viaggi culturali in India.

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