L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle, 1974) si pone fin dall’inizio sulla scia del mito del buon selvaggio di rousseauiana memoria. È in fondo una storia di formazione che postula alcuni elementi relativi al relativismo etico e cognitivo già figlio, fin dai trattati dei moralisti del Cinquecento, delle esplorazioni e del confronto con popolazioni altre da quelle del Vecchio Continente. Il protagonista cresce al di fuori della stessa civiltà che Rousseau condannava essere alla base di modelli comportamentali e istanze etico-morali corrotte e tali da adulterare la natura originariamente buona dei soggetti umani. Non è un caso che uno dei capolavori di Rousseau sia proprio L’Emilio, in cui l’autore delinea alcuni principi educativi di assoluta innovazione, perlopiù legati ad un sodalizio pedagogico di elementi empirici e teorici perfettamente integrati in una linea di insegnamento calato profondamente nel contatto con la natura per un doppio verso: con quella esteriore, per così dire, e con quella interiore dell’educando. Nel suo Discorso sulle Scienze, Rousseau afferma che la civiltà consiste di catene inghirlandate di fiori, come a dire che siamo tutti suoi ostaggi o prigionieri e che essa è una gran corrompitrice e tale da coartare la vera libertà e aggirare la cogente necessità di giustizia e eguaglianza sociale – non solo sul piano materiale ma anche morale e del definirsi delle identità –, che sole sarebbero in carattere con un reale progresso. Il protagonista del film (interpretato intensamente da Bruno S. con una certa ascendenza autobiografica rispetto al ruolo) ha vissuto ai margini di quella civiltà, per esservi poi accolto da un generoso mentore che si fa carico di educarlo a vivere secondo codici etico-morali consoni al contesto di una società maturamente avanzata, e insegnamenti delle più eterogenee discipline del sapere, perché possa divenire un libero pensatore e un soggetto reintegrato nel tessuto sociale. Senonché Kaspar manifesta da subito dei punti di vista e delle matrici di ragionamento che mettono in discussione le fondamenta di un sapere altrimenti assiomatico e apodittico… La sua forma di pensiero non contaminata da quello che Freud chiamava Super Io, offre angoli visuali problematici e apparentemente inediti. Egli è una mente vergine come la natura non ancora contaminata dalla condotta dominatrice e predatoria dell’uomo civilizzato, quella che costituisce la parte bianca nelle mappe di “Cuore di tenebra” di Conrad. Il suo concetto di ciò che è Bene e ciò che è Male, non è figlio dell’impronta di quel peculiare Esserci storico che si avvale di complessi orditi teorici, nonché di scelte pedagogiche pedissequamente modellate su una forma di sapere autocentrata, per giustificarne il valore assoluto e ontologico come se si trattasse di altrettanti assiomi indubitabili. Ciò che nel pensiero filosofico è chiamato Epochè e consiste di un artifizio strategico di sospensione del giudizio come preliminare a un’analisi realmente veridica degli epistemi cognitivi, è per Kaspar la condizione naturale del proprio intelletto e apprendimento. Gli abitanti del piccolo villaggio tedesco in cui viene accolto, lo guardano con diffidenza e razzismo, come se fosse un elemento estraneo trapiantato nel piccolo organismo sociale del villaggio, creando una forma di naturale rigetto. Egli deve essere espulso secondo schemi di espulsione che ricorrono al modello del tutti contro uno in una sorta di linciaggio epurativo che ristabilisce un ordine perduto. La tranquilla vita del villaggio non può accogliere una condizione di mescolanza, non può accettare una contaminazione dovuta all’ingresso di quell’elemento che è pietra di scandalo e vittima perfetta per dare atto al primitivo principio consistente ne il male scaccia il male (Letteralmente: Satana scaccia Satana). La verità profonda è che quel contesto sociale che si ritiene evoluto – e in un certo qual modo la figura del filantropo che accoglie Kaspar è l’emblema di un progressismo libertario che ha un suo valore –, quel contesto di leggi e convenzioni è malato di posture paranoidi sul piano di una presunta purezza delle identità tale da poter essere compromessa e contaminata da una mescolanza con il fattore a essa esterno rappresentato dall’ex selvaggio. Kaspar è fondamentalmente buono e ingenuo, sinceramente grato e portato all’apprendimento, e ciononostante rimane un nemico per la comunità che lo aveva accolto. La sua condotta non può integrarsi col contesto “omeostatico” del villaggio, segna una rottura e un allontanamento dalle leggi totemiche della comunità che vede in lui una minaccia. Egli è una figura cristica nella misura di essere vittima innocente, agnina, priva di colpe… E Il finale, in cui il dottore indica nella conformazione del cervello di Kaspar la tara di una mente malata, risponde a un’istanza riduzionista e pressoché lombrosiana che mettono in ridicolo la scienza in quanto foriera di falsi dogmi e non aderente che a schemi mortiferi rispetto a una comprensione realmente illuminata e umana della natura e della vita degli individui. Come analizza bene Girard, nei resoconti dei Pogrom e delle persecuzioni medievali nei confronti degli Ebrei, si assiste a qualcosa di simile alla vicenda narrata nel film di Herzog: similmente ai testi mitici, si ha qui un’eliminazione radicale… e il frammento o i frammenti eliminati sono colpevoli di un’azione qualificata negativamente. L’eliminazione stessa è qualificata positivamente, ed è collettiva piuttosto che individuale. Si inizia con uno stato di indifferenziazione e si finisce con una differenziazione… «Le accuse contro gli Ebrei non erano meno fantasiose delle proprietà malefiche attribuite agli eroi della mitologia… In assenza di minoranze etniche, o di qualcuno che all’interno della collettività possa essere definito “straniero”, le pulsioni verso un comportamento aggressivo tendono a polarizzarsi contro quegli individui che, per una ragione o per l’altra, non riescono a adattarsi ai modi di vita comunitari…» (Da René Girard, “La voce inascoltata della realtà”). Quand’anche l’assassinio di Kaspar fosse stata opera di un singolo, la mano di questi sarebbe stata armata dal sospetto, dal pregiudizio e dalla fisionomia retriva di un’intera comunità, trovando in essa una “legittimazione” simile a quella di chi scagliò la prima pietra nell’episodio evangelico della lapidazione. Il film è anche una lettura negativa di una forma di falso progresso, di una società che più si sente portatrice di solidi valori sociali e morali – ormai secolarizzata e avvertita delle forme di avanzamento dettate dalle scienze positive che demistificano false credenze e relegano il sacro a elemento secondario e non strettamente necessario al vivere e prosperare, seppure ancora presente in maniera dogmatica al centro delle istituzioni pedagogico-culturali figlie della tradizione – più in realtà mostra qualcosa di atavico e vicino alla superstizione nell’indirizzare la sua violenza verso un soggetto ritenuto “maledetto” secondo principi irrazionali e tipici di una dimensione fortemente ideologico-affettiva. L’intero film è la parabola di una creatura che per la prima volta scopre il mondo, simile al Ciaula di pirandelliana memoria che non ha mai visto lo spettacolo, seppure antico e a tutti familiare, della luna nel cielo notturno, Kaspar assiste e testimonia del mondo per la prima volta e prova a comprenderlo ma rimane un estraneo non compreso a sua volta, un elemento pericoloso in quanto vergine e tale da incarnare il grado zero della civiltà.
Massimo Triolo