Enrico Bernard si è classificato secondo alla Terza Edizione del Premio di Poesia Pierluigi Galli. Qui trovate pubblicate le sue tre liriche con le quali ha partecipato, più altre sue cinque poesie.
Mare Mostrum
Lampedusa, isola piena di luce!
Cometa di roccia sul mare
piovuta dallo spazio siderale
che il vento ha poi soffiato
sulle ali di un raggio dorato
al limite dell’orizzonte incantato
dove non c’è più passato
ma solo presente immediato
come un futuro più volte vissuto
in cui ciò che sarà, è già stato.
Resiste la cortina di nebbie
allo squarcio del sole
che apre lembi d’azzurro
nel tessuto di nuvole
steso come un panno bagnato
sul plumbeo cielo d’ottobre.
Poi cala lentamente la tenebra
squarciata dal richiamo del faro
e l’isola avvolta dalla tempesta
s’erge sull’acqua a porto sicuro:
riflette nell’incipiente notte di luna
le stelle di un giorno di festa,
d’un drago son occhi e la testa,
mentre l’onda sposa la duna
attratta dal canto della sirena
a prua d’una spiaggiata polena.
Ora l’universo si riempie di luce
e risplende anche il fondo marino
dove il corallo lento si riproduce
affinchè tutto ricominci bambino:
è attimo solo il bagliore improvviso,
illumina le rughe che solcano il viso
del corpo a galla di un clandestino.
Dioniso
Si! Mi è parso di scorgerlo,
il Dio, era lì accanto alla vite
e staccava acini dal grappolo
maturo di sole con le sue dita,
nudo spirito di barbarica memoria:
mi dava ad intendere di non avere
alcun timore di me: in suo potere
casomai ero io, il sobrio viandante
di un mondo finito nei fumi
di tante guerre e sofferenze maligne
che l’umanità infligge a se stessa
come se tutto finisse con essa.
Un senso di tristezza colsi nello sguardo
del Dio dissepolto che si allontanava
zoppicando col suo passo caprino
a piedi scalzi lungo i filari
sfiorando con le anche e i glutei
la vite verdeggiante ed ignara
dell’immane vendemmia rossa di sangue
e di fuoco che ancora brucia le stoppie.
Poi si rivoltò un istante a guardarmi
e all’improvviso smise di esser divino
per trasformarsi in una folata d’aria
con cui prese il volo come uccello qualunque
per raggiungere l’ignoto infinito che attonito
osserva il nostro disperato giorno terreno.
Don Chisciotte nella Città Incantata (Il capitolo mancante)
Le pietre lunari della città
incantata sono denti artificiali
estratti dalla bocca dell’umanità
che non può percepire quali
siano i sintomi dei propri mali
e cerca invano una via d’uscita
dal vuoto mentale in cui è finita.
Pazzi coloro che si scagliano
le pietre viscerali e prive di senso
che offuscano il sonno del perdente
che apre la sfida all’irrazionale,
al sesto senso che non sente
come il cuore di vivere si pente
e smette all’improvviso di pulsare.
Io prendo in ostaggio la natura
che mi rimane e mi trasformo
nel Cavaliere dalla Triste Figura
che sbatte la testa sul tronco
d’un albero per mostare al mondo
di essere padrone della follia pura
come il cane che morde per paura
Proseguo a piedi il mio destino
come disarcionato dal destriero
che non può seguirmi sul sentiero
su cui inconsciamente cammino
senza riuscire a spiegare il motivo
che trasforma in drago un mulino
e lo fa muovere con fare furtivo.
L’ombra del gigante allora si leva
dalla superficie del mare di pietra
che come una freccia dalla faretra
estratta e scoccata in alto si eleva
per conficcarsi al centro del cielo
e squarciare della nuvola il velo
che avvolge della vita il mistero.
Che cos’è la follia se non un sogno
di una notte di luna piena, quando
la cupa tenebra inebriata di fioca
e pallida luce sulle cime si posa
e ingigantisce di forme la poca
materia condensata nella prima
mattina irrorata solo di brina?
Rimasto solo nel bosco, Don Chisciotte
si prende la testa tra le mani e comincia
a stringere forte come se fosse una botte
piena di vino, quello buono della Mancia
e di Castiglia, da cui spremere il succo
del suo cranio malandato e distrutto
mentre Rozinante lo guarda distratto.
Il povero cavallo è infatti piú attratto
dall’erba del prato da brucare affamato
piuttosto che dalle pazzie del suo padrone
il cui elmo abbozzato conosce il bastone
la cui durezza su di lui s’è abbattuta
come una foresta di rami e di colpi
che non pochi furono, ma molti.
Gli si manifestarono cosí gli orridi giganti
di pietra levigata e scolpita dagli elementi
che a perdita d’occhio si ergevano in tanti
dalle forme contorte, stralunate e pesanti
o come spruzzi di mille vulcani eruttanti
la cui apparizione gli fece battere i denti
fino a fargli perdere stremato i suoi sensi.
Don Chisciotte rimase disteso sull’erba
svenuto, non si sa per quanto tempo:
si riprese soltanto sentendo sul mento
la ruvida e fetida lingua del suo cavallo
che lo stava leccando come col cucciolo
morto fa la gatta per fargli riprendere
il palpito prima che gli spuntino i vermi.
Il Cavaliere della Triste Figura rimase
per qualche istante attonito a fissare
il cielo rischiarato dal sole, ridotta s’era
la luna ad un cencio steso ad asciugare,
mentre il dolce tepore della primavera
spargeva nell’aria un profumo di fiore
che dava alla vita un senso maggiore.
Lentamente riuscí a rimettersi in piedi
con tutta la sua pesante armatura
e notó che i massi dalle orribili forme
non erano altro che segni ed impronte
da lui stesso lasciate dietro di sé
mentre combattendo col mostro interiore
aveva sradicato piante e scavato buche.
Tutto era apparentemente tornato normale,
svanita la percezione di ogni possibile male
da passare a filo di spada e ammazzare,
così al pover’uomo non rimase altro da fare
che mettersi a sedere sulla pietra e aspettare
il ritorno di Sancio con qualcosa da mangiare
e un pegno d’amore per sostenergli il morale.
***
Ai miei poeti preferiti
di Enrico Bernard
Zefiro solitario (a Ungaretti)
Le foglie e le brezze
Si sfiorano appena
Nell’amplesso celeste
D’amanti il cui peso
Sfida leggi universali
Nel turbine di cose irreali.
Credo che anche il mio pensiero
Faccia lo stesso con la materia
Di cui sono fatti i miei sogni
Che si posano sul prato della mente
Come fanno le foglie, lievemente,
col tonfo della piuma sospesa.
(Comunque se ogni verso
Deve avere un senso preciso
Precipitare in un contesto
Come la pietra nella bocca
Di un vulcano in eruzione
Bisogna sopire ogni emozione.)
Discendere al cupo (a Petrarca)
Lingue di fuoco
Sulla linea dell’orizzonte
Varcano il tempo
Del giorno che viene
A porger la guancia
Senza aspettare
Un ritorno di stelle
Nel cielo infinito
Che inerte si spegne
In un lago di sangue
Versato senza ferita.
Sembra dentro,
dunque, la luce;
cosí come il buio
non esiste in natura:
ovunque l’arcobaleno
fa spettro ai suoi raggi
celesti come un dio
che saetta parole infinite
ma incomprensibili e vuote
se la speranza del sole
s’offusca nel cupo del cuore.
A Montale e Calvino
Montale ne dice di sue
contro il poeta laureato,
io di lauree ne ho due
ma sono un po’ stralunato.
Infatti, scrive Calvino,
bisogna stare vicino
al reale; e pur tuttavia
volare con la fantasia.
Questo mettere il piede
in due scarpe precede
ogni atto creativo
che deve parer istintivo.
Con le debite proporzioni,
con Calvino e Montale
chi si può confrontare?,
anch’io ho le mie inibizioni.
Quando mi metto
a ragionare sul verso
mi sento perso
e subito smetto.
Se invece dò sfogo
a quello che ho dentro
subito centro
il mio vero scopo.
È vero che bisogna
evitare la didascalia:
non è poeta chi sogna
pensando alla bibliografia.
Scarnificarsi fino all’osso
di seppia, al filo rosso
del nostro essere stesso
che rimane inespresso.
A Hölderlin
Insegneremo la luce dei giorni
come divinità rimbestialite
perchè vinta la notte si scopra
la vita che fu sempre vissuta.
Chi è vento fuggirà nei deserti,
chi è ombra svanirà nei mattini:
insegneremo noi la luce dei giorni
come Dei imbestialiti correndo festosi.
Vinta la notte del gelo si scopre
una vita che fu sempre vissuta.
Allora gettando semi di sole
insegneremo noi la luce dei giorni
come Dei imbestialiti correndo festosi
dove l’erba cresce e il grano matura.
Poi! Poi! Gettando semi di sole
insegneremo a sciogliere il gelo con la luce dei giorni!
Ora come Dei rimbestialiti corriamo festosi.
Germogli di luce sono i giorni miei
oh, datemi le vostre nuvole più nere
perché voglio gettarvi semi di sole
e stelle comete in gara col nulla
da cui siete venute per ritornare
con mille miliardi di semi di sole.
Sulla tomba di Büchner
La vulgata borghese
Tradì il tuo pensiero,
L’ideale rivoluzionario
Che mosse la tua opera.
Ora ripenso, sulla tua stele,
La frase con cui L’incorruttibile
Robespierre liquido’ Danton
Il moderato che considerava
Conclusa la fase rivoluzionaria:
“A morte quella società
Che dopo aver strappato
Le vesti alla morta nobiltà
Ne vuole ereditare i bagordi”.
E paragono questa battuta
All’ultima frase che scrivesti:
“pace alle capanne e guerra
Ai palazzi”. Perché come fai
Dire a Robespierre: lasciata
A metà la rivoluzione è solo
Una tragica ridicola farsa.