“Raso rosso”, la silloge di racconti di Massimo Triolo

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Una raccolta di racconti che si compone di narrazioni in forma classica e “visioni” brevi (potentemente icastiche e allucinate, succinte) secondo una teoria geometrica interna di alternanza delle due diverse forme di affabulazione. È un omaggio sentito e ingegnoso alla migliore tradizione della letteratura gotica e alla sua moderna versione “pop” (ovvero l’horror).
Attraverso uno stile generoso e robusto, minuzioso, fortemente evocatore, l’autore dà voce a paure e ossessioni, zone del perverso e dell’eteroclito, con una smagliante vena creativa. Non sono solo racconti di intrattenimento, come spesso accade nella letteratura di genere, ma anche profonde riflessioni sul lato oscuro della natura umana; in questo senso Triolo connota con perizia psicologica e antropologica, i suoi personaggi, offrendo al lettore delle storie sempre in bilico tra realtà e incubo, e in cui questi due elementi si compenetrano senza apparente soluzione di continuità.


Non vi sono mostri aderenti all’iconografia classica del genere orrorifico, ma mostri interiori che dettano condotte distruttive e autodistruttive, pulsioni malate, inganno e autoinganno, a personaggi che compiono un viaggio nell’assurdo e nel perverso… Gli archetipi di Bene e Male, non sono declinati attraverso l’elisione dell’uno in favore dell’altro e viceversa, ma sono la stessa sostanza magmatica e caotica, cruda e viscerale, angosciosa e oscuramente destinale, che guida i protagonisti di queste storie attraverso un viaggio dentro sé stessi e ciò che dà scacco alle loro identità – fisiche e morali.
La dimensione “metafisica” punteggia di sé solo un’esigua parte di questo potente libro, ed è comunque funzionale a incarnare, come in un gioco di specchi nello specchio, le personalità plurime e controverse di personaggi che non sono graniticamente uguali a sé stessi, ma vivono contraddizioni e tormenti, illusioni e dure verità svelate. Il gusto del macabro è presente ovunque e si fonde al pervertimento, e il senso di angoscia e di pericolo pullulano e si autoriproducono in ogni recesso di queste latebrose narrazioni. Narrazioni che inscenano l’esistenza in forma di labirinto, la verità in forma di autoinganno, il piacere strettamente avvinto al senso di morte, la luce mai disgiunta dalle tenebre.
Scriveva Shakespeare che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, ma cosa succede se quei sogni altro non sono che l’incubo di noi stessi?

Salvatore Summo

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