Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Assicurazioni Generali, dal 12 al 17 ottobre 2021
La struttura scenografica di Marta Crisolini Malatesta, una casa delle bambole a grandezza naturale – essenziale ma non scontata – è al centro della lettura classica de “La bottega del caffè” di Carlo Goldoni con cui si inaugura la Stagione del Rossetti di Trieste; chi ha potuto assistere a “Das Kaffeehaus” di Rainer Werner Fassbinder (prodotta nel 2016 dal Rossetti stesso per la regia di Veronica Cruciani e interpretata da molti degli attori di oggi) ha oggi il privilegio di sentirne risuonare gli echi, portati in quel contesto, alle estreme conseguenze.
Ecco allora che la leggera e profonda saggezza goldoniana, ritornata qui alle sue origini dalla visione tradizionalista di Paolo Valerio, spicca ancor meglio facendo emergere senza strepiti quanto sia sgradevole la presenza, in una qualsiasi comunità di persone, di chi ricerca il potere e il controllo sugli altri attraverso la maldicenza, la manipolazione del sentire e dell’agire altrui rifiutando fino alla fine la responsabilità sulle conseguenze delle proprie parole.
Ma la parola crea, genera effetti reali e concreti sul mondo e, in questa messinscena, tutto ciò è ben visibile.
La fuggevole coreografia d’apertura ha il sapore dell’”ouverture” grazie alle belle musiche di Antonio Di Pofi che riappaiono in altri momenti della messinscena, quando tutti gli interpreti appaiono silenziosi con addosso delle bianche e inespressive bautte, brevi intermezzi funzionali a dar tempo allo spettatore per alleggerire una tensione interiore sottile, a tratti quasi insostenibile.
Molto bravi gli attori della Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, in scena assieme a Michele Placido (don Marzio), Luca Altavilla (il brillante Trappola, al servizio di Ridolfo alla bottega del caffè), Anna Gargano (la ballerina Lisaura, promessa sposa di Leandro, aspirante bigamo), Armando Granato (la guardia), Vito Lopriore (l’untuoso biscazziere Pandolfo) e Michelangelo Placido (Leandro, baro tronfio e presuntuoso).
Emanuele Fortunati è l’ingenuo e credulone Eugenio, la cui dipendenza dal gioco è il motore intorno al quale tutto si muove; Ester Galazzi veste i panni di Vittoria, la disperata ma battagliera moglie; Francesco Migliaccio è Ridolfo, il genio buono della vicenda, l’unico ad aver chiaro lo svolgersi degli eventi; Maria Grazia Plos è Placida, l’infelice e tenace moglie di Leandro, da lui abbandonata in quel di Torino e alla disperata ricerca del fedifrago consorte.
Michele Placido è don Marzio, capace di rendere al meglio l’insopportabile millanteria di un personaggio molesto, ostinato nel porsi costantemente in opposizione su tutto e in ogni contesto, a negare anche la logica evidenza dei fatti per poter meglio manipolare chiunque gli si avvicini, che trova in Ridolfo il naturale antagonista.
Ma l’irresponsabilità della maldicenza si ripercuote inevitabilmente contro il suo artefice che, in un finale di accennata catarsi, non del tutto liberatoria (si tratta pur sempre di una commedia) si rivela irrimediabilmente odioso a tutti a seguito del disfacimento progressivo e ineluttabile di una credibilità, alla resa dei conti, fondata sul nulla.
Paola Pini