Corriere dello Spettacolo

Nazario Pardini e il vernacolo. “Sonetti all’aria aperta”

All-focus

Edizioni Offset grafica, Pisa, 1999

Ci è cara la figura di Nazario Pardini, poeta, saggista, ordinario di letteratura italiana, una vita spesa nella condivisione viva e piena del bene della scrittura (si veda anche quella palestra rappresentata da “Alla volta di Leucade”, prezioso blog da lui curato) nel costante richiamo ad una parola e ad un umano in attenzione e declinazione reciproca. Un percorso ricchissimo, per questo mai escludente un dettato aperto e libero alle diverse connotazioni, alle diverse interrogazioni risalenti dal reale, dall’alto e dal basso di una Storia petrosa, sofferta ma anche gioiosamente partecipe di una condizione alla prova di sé, delle proprie aspirazioni e dei propri limiti in cui non a caso forse è nel segno della comunità l’impronta d’orizzonte della sua riflessione. Una scrittura così dominata, come ricordato dallo stesso Pardini, da una ricerca continua di sé nel legame interiore col mondo e con la realtà circostante, con una natura soprattutto che è quella toscana della Val di Serchio. Per meglio comprenderne il tracciato e goderne tutte le suggestioni ci è parso bene tornando alle origini del dettato ripartire allora dalle sue prime prove, da quel dire in vernacolo dell’amata Metato, nel pisano, in quest’abile libretto successivamente espanso in tutta la sua originale personificazione in un dire insieme dinamiche e vicende evidentemente non solo individuali. Un linguaggio quello di Pardini va ricordato che se già nei risultati in lingua  perfettamente oscillante  “fra un livello basso, tecnico-agreste e popolareggiante e un livello alto, aulico prezioso” (nella puntuale sottolineatura di Floriano Romboli) trova in queste pagine tutto il contraltare di un’epoca segnata nel passaggio del fine millennio da una realtà sociale come dispersa, stordita tra naturali cambiamenti e meno naturali indifferenze e spinte di cancellazione. La scena allora, sapientemente incarnata nel contrasto tra contesto urbano e di campagna nella figura del caro Beppe trasferito in città al seguito del figlio, viene dunque a rivelarsi particolarmente preziosa nella rete di umori, dissonanze, aspirazioni adesso a più di vent’anni più che rivelatoria di una mutazione in atto forse non proprio includente e non rispondente, nei suoi uomini e nelle sue donne, alle legittimità della terra. Ma la poesia non è un documento sociale, o lo è solo in parte, Pardini lo sa bene dando voce piuttosto dall’intimità stessa degli spazi e dei cuori a sradicamenti, piccole e grandi misconoscenze nello spessore di una parola intrisa di tutto lo spirito di una terra allo specchio dei suoi mancati ritrovamenti certo ma anche della coralità dei suoi odori, dei suoi calori, del suo gusto tutto popolaresco della stizza e del buon senso, della vicinanza e della rimostranza. Così nella antica dignità del sonetto (a parte rare composizioni) ci viene restituito in modo neppure del troppo velato il senso di una marcata e progressiva disappartenza, e cancellazione dicevamo cui l’uomo può solo e a tratti rimettersi, come spodestato nel senso di una custodia che non è più sua, di una creazione a cui ha abdicato, l’amato Beppe non più al centro di uno spazio di cui è fattore, compagni, stagioni, animali nel rapporto di reciproca semina ma nella “baraonda” di pareti e  strade senza volto. La memoria del presente diviene pertanto dicitura di una struttura al vaglio dei suoi costumi e delle sue strutture antiche che nell’alveo di ideologie, confessioni, comunità, seppure in crisi sa ancora almeno nella riproposizione del dirsi ancora un suo  residuo, una sua possibilità a fronte di un futuro di timori, di smarrimenti nel divario accentuato dei valori e delle ricchezze. E siamo con Beppe allora in città dall’amata terra”‘n piano lungo er fiume” (a cui non bastano fughe di improvvise ritorni) riportata tra proverbi e malinconie di immagini lontane, tra storie e racconti di stramberie ed uomini, di paesane imposture ed eroismi, di infanzie di fatiche e adulte comprensioni come in un lunario, un calendario o uno stesso sussidiario, quaderno di scuola a ricordarci, a rappresentare il candore e la bonaria malizia della resistenza di un mondo, del mondo a quell’aria naturale cui l’uomo tra veleni chimici e dell’animo rischia di non aver più campo. Eppure non c’è rabbia quanto disincanto in questi versi di Pardini, la forza nella parola più che degli uomini negli elementi, nelle cose a risuonare con forza tutta quella disposizione   metaforicamente panica e allegoricamente saporita, per dirla con le sue parole, di un sapersi dell’uomo stesso allo strappo con le sue radici. Lingua, linguaggio allora sì nel pieno affondo entro una natura espressa nell’oggettivazione icastica delle sue personificazioni, delle sue rimanenze e dunque, ancora, come da Benozzo Gianetti evidenziato nella presentazione,”colorito, penetrante, satirico” e “patetico, caloroso, vibrante” come appunto dalla rimostranza dalla terra da cui risale. Una terra tutta allora a proposito del basso e dell’aulico di cui si accennava (si veda a figurazione “Arano”, brano esemplare nel passaggio dall’evocazione lirica alla satira) compassionevolmente bramata pur nella tentazione del rigetto, sede di una bellezza che può il cielo (“Du’ pisani ‘n Paradiso”) nella condensazione di versi (splendidi) che valgono una dichiarazione d’amore: “andiamo su ‘ lungarni illuminati/delle fiammelle tenere di sera,/quando ‘r tramonto cède e’ su’ rosati/fili di seta ‘n fondo alla su’ sfèra” (“La luminara”). Andando a concludere non possiamo che condividere così quanto da Pardini detto sul carattere assolutamente microterritoriale e poi personale del vernacolo, aggiungendo da questo nell’espressione compiuta di questa poesia l’incidenza propria perché di frammento, perché più vicino alla radice che l’ha partorito a dire urgenze e distanze di mondi e di un mondo che si va dimenticando. Ed anche di questo al caro Nazario non possiamo che essergliene grati.

Gian Piero Stefanoni

Exit mobile version