Fin dalla prima volta che sono entrato in contatto con le opere di Mario Bettazzi vi è stato qualcosa che mi ha colpito nel profondo. Da subito ho rintracciato nei suoi lavori, in special modo negli ultimi, un accostamento originale, vale a dire la sua capacità di unire il classicismo con la metafisica. Le sue sono ambientazioni sognanti, senza luogo e senza tempo, come se fossero rimaste cristallizzate, qui dove si assiste alla magia, vale a dire all’unione tra realismo e sfera onirica, con i soggetti principali che si fanno largo dentro queste visioni del pittore, profondamente evocative. Mario Bettazzi dimostra qui sia un’ottima attitudine per il disegno che per la sfera cromatica, capace di trovare accostamenti coloristici veramente incisivi ed esteticamente appetibili.
I suoi sono anche scherzi, divertimenti, capricci, come se l’Artista trovasse piacevolezza nel delineare strutture costruite dalla sua fantasia, in grado così di dare luogo a universi patafisici, per usare un termine di Alfred Jarry, che sono regolati da precise leggi. Come non pensare, in qualche modo, osservando queste opere, alle macchine di Picabia, ai suoi congegni allo stesso tempo astratti e impossibili. Nei suoi quadri Bettazzi non ci parla d’impossibilità, anzi, al contrario, della possibilità di trovare un senso nel sogno, della possibilità di costruire un’architettura precisa della visione, che, proprio come la sfera reale, forse ancora di più se ci rifacciamo ai grandi studi sul conscio e l’inconscio di Jung, è dotata di strutture ineccepibili e minuziose. Quelli di Mario Bettazzi sono, in ultima analisi, viaggi astrali che nascondono enigmi invalicabili. Riguardo a questo parlano chiaro le sue figure bendate che non hanno intenzione di svelarsi, proprio perché è infattibile sporsi oltre i confini dell’onirico.
Stefano Duranti Poccetti