Corriere dello Spettacolo

AMERICA LATINA, UN CINEMA CHE NON DÀ RISPOSTE, NÉ DOMANDE. OFFRE REAZIONI

Favolacce ci aveva lasciato il vuoto, dopo averci asportato, estirpato e amputato brandelli di cervello, brandelli di cuore. Ci aveva tolto anche le parole per poterne parlare, così da lasciare tutto lo spazio e il tempo del racconto al Cinema, solo al Cinema, un cinema aspro ma pulitissimo. Con America Latina i fratelli D’Innocenzo continuano a scavare e scandagliare il vuoto, quello che riempie la coscienza. Bastano pochi minuti di film per ricordarci dove eravamo rimasti dopo Favolacce, e farci ritorno, riprendere esattamente da lì, immergersi di nuovo con gli occhi, con le orecchie, con il tatto, e risentire gli stessi attorcigliamenti di stomaco, avvitamenti di pensiero, oscillazioni di sentimenti.

I gemelli registi mettono in scena l’inquietudine, lo sforzo del vivere umano, e lo fanno ancora attraverso una figura maschile, turbata e ambigua. Massimo Sisti, interpretato da un Elio Germano in stato di grazia, fa il dentista e guarda dentro le persone attraverso bocche spalancate. Un giorno scende nello scantinato della sua grande villa: tra la sporcizia e la spazzatura accumulata, una ragazzina legata ad una tubatura e imbavagliata. Si scuote, lui, noi, il film. Massimo non si capacita della sorpresa, non sa cosa ci faccia lì quella ragazzina: è a casa sua, nella sua dimora; l’assurdo entra nel suo perimetro esistenziale e invade il piano filmico. Ecco un nuovo Lenny, il personaggio di Memento di Christopher Nolan, che sembra soffrire allo stesso modo di perdita di memoria, e così viene preso in giro dall’amico, dai conoscenti, e con lui America Latina assume le sembianze del thriller, dell’indagine, lo spettatore al pari del protagonista inizia a chiedersi il perché, chi è stato, cosa sia successo. Ma poi, quando sembra quella cosa lì, il film si smarca dalla verità, con eleganza fa un passo di lato, figlio di un dispositivo di scrittura ancora una volta micidiale e pressoché perfetto dei due registi scrittori: e la storia non è più ciò che è, o che è sembrata fino a lì, e come accadeva in Favolacce il “non racconto” diventa racconto, il film racconta non cosa è, ma cosa non è. Il vuoto appunto, il niente: il “niente” ha consistenza come in Heiddeger, e rispetto al “niente” domanda e risposta sono allo stesso modo un controsenso. Il cinema dei fratelli D’Innocenzo non dà risposte, ma ad un certo punto ti rendi conto che nemmeno vuole porre domande. Offre reazioni. Perché sei lì, vieni toccato, colpito, stordito, e non puoi fare altro che reagire.

L’indagine thriller diventa a questo punto indagine psicologica, dentro l’animo di Sisti. Con lui vivono la moglie, e due figlie: figure oniriche, algide, quasi fantasmatiche, presenze reali e distanti. I fratelli D’Innocenzo creano un film dalla messa in scena sempre in sospeso tra realtà e incubo, che poi diventa metaforico. E allora cominci a pensare che quella ragazzina altro non è che una metafora del famoso mostro che abita gli abissi della nostra coscienza. Sisti scende nello scantinato della sua anima, i buchi profondi dove nascondiamo i mostri. La ragazzina infatti inizia ad urlare striduli e vagiti, che sembrano veramente quelli di un mostro di una favola nera. E allora la moglie gli suggerisce di farsi aiutare da uno psicologo. America Latina diventa horror, e il dramma del protagonista sembra coincidere con quello di un altro illustre personaggio della Settima Arte: il Jack Torrance di Shining, la medesima parabola verso la pazzia. Fotografia e scenografia da luci e pareti rosse che sembrano ferite, dalle quali emergono gli urli di dolore di Sussurri e grida di Bergman; le inquadrature dal forte impatto visivo che definiscono lo spazio della mente e delle costruzioni/istallazioni/allucinazioni mentali. Ma più che in queste scelte stilistiche, o nei primissimi piani nei quali il protagonista viene schiacciato dalla macchina da presa, o nelle inquadrature dietro i vetri in cui vengono imprigionati, lui e la realtà, la realtà e la verità, sono i dettagli dei suoni che fanno la differenza, quelli che dentro la sala cinematografica ti arrivano da dietro, da lato, ti trovano impreparato, suoni disturbanti, sottili e perciò torturanti, mai melodici, sempre discordanti, che ti si piantano nel cervello, ti graffiano, che ti fanno entrare in questo vortice del protagonista, dentro una coscienza sporca, di una persona deviata, matta, che sta perdendo ogni contatto con la realtà.

Resta il niente, nessun appiglio di verità, nessuna certezza.

Poi si arriva verso il finale, dove ancora una volta America Latina cambia volto, diventa altro da sé, qualcosa che non ti aspetti. Diventa sorpresa e sintesi.

Il vuoto si riempie, infine. Prima viene ripulito, come fa Sisti aiutato da una scopa con tutti quei rifiuti nello scantinato; poi si riempie di acqua, l’archè origine di tutte le cose, simbolo di redenzione. Infine, liberato. Si riempie di realtà e verità, attraverso la voce di un giornalista di un telegiornale.

Ma soprattutto il vuoto si riempie di amore.

Reazione.

È amore.

Simone Santi Amantini

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