“M il figlio del secolo” conquista Milano

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Alla fine il progetto di M il figlio del secolo è giunto in porto al Piccolo Teatro Strehler, dopo ripensamenti della struttura iniziale prevista in due parti e per la problematica del Covid. Massimo Popolizio si è arrischiato in tempi poco compiacenti, nell’impegnativa avventura di portare in palcoscenico il mastodontico scritto di Antonio Scurati, vincitore del premio Strega 2019. Lo fa in maniera originale, rielaborando il dramma in trentun quadri coinvolgenti, in cui si dipana l’ascesa al potere, sullo sfondo degli anni ’20, di Benito Mussolini. Popolizio si spende in quest’impresa nella doppia veste di regista e attore, alla testa di una compagnia (ben diciassette) cui affida singolarmente più ruoli, a risuscitare la variopinta galleria di personaggi del romanzo. Il risultato della riduzione teatrale è efficace quanto spietatamente lucido: mantenendo lo stile della scrittura di Scurati, mette in primo piano e profondamente a nudo l’animo umano. Ovunque si guardi, quantunque si cerchi in scena, non si trova un solo personaggio “positivo” (escluso, anche se non completamente, quello di Matteotti) con cui solidarizzare e, immedesimandosi, metter la propria coscienza in pace. L’individualismo è dappertutto, condito da un cinismo che fa dire a un personaggio: La superstizione è l’unica religione adatta a questo Paese… Impietoso spaccato della nostra storia, amara analisi che trova spiegazione alla sottomissione “all’uomo forte”. Sinistre affinità con il vissuto quotidiano: il fascismo non è il virus pre incubato, ma è il corpo che lo accoglie. L’esercizio della memoria è la nostra difesa. Risaltano a contrasto i momenti d’idilliaco pudore amoroso fra Matteotti e la moglie Velia, così come lo spazio dato alle figure femminili. Potente esempio di teatro “impegnato”, che sfata miti e luoghi comuni venutisi a incrostare negli ultimi due decenni, di voler il Teatro quale abitudine mondana o astratto omaggio alla cultura. No. Questo spettacolo fa scrollar di dosso la contemplazione estetica in cui ci si è pigramente adagiati, riportandolo alla primaria funzione dei Greci, quando lo crearono: una comunità che ha il coraggio di mostrare a se stessa quello che è, pur prevedendo contrarie reazioni.  Non più allora passiva assimilazione di quel che si “agisce” in scena ma partecipazione viva. Anche al più sprovveduto degli spettatori accadrà così che le parole udite non rimarranno infruttuoso ascolto, diverranno materia di riflessione e riferimento per decidere le proprie scelte. Teatro “d’impegno” si è detto, ma valorizzando ancor più le risorse della recitazione che il regista imposta su un tono di sfacciata e grottesca ironia, con uno sguardo allo straniamento brechtiano, anche nell’aggiunta di couplet musicali. Surreale nel distacco nel racconto delle imprese violente le cui crudeltà, isolate in dimensioni quasi irreali, appaiono ancor più nella loro ferocia bestiale.  Non mancano strizzate d’occhio al varietà, a Petrolini, che ben si presta con il suo “Nerone e il popolo” (Bravo Grazie! Il popolo quando s’abitua a dire che sei bravo, pure se non fai niente, sei sempre bravo…) a facili parallelismi con la figura del protagonista. La messinscena è costituita da blocchi mobili capaci, in rapida successione di movimenti, di esemplificare ambienti e situazioni storiche, riuscendo pienamente a evocarli: perfetta quanto funzionale estensione del dramma inscenato. Questa è la potenza del teatro vero, che non chiede facili scappatoie alla tecnologia o agli imperanti effetti speciali. Il taglio dei quadri della narrazione drammaturgica è quasi cinematografico, con sequenze che si susseguono sempre rubando attenzione allo spettatore. Completano il quadro alcuni spezzoni cinematografici (Riccardo Frati) con cui inizia e termina lo spettacolo, a chiusura del cerchio. Scene di Marco Rossi, costumi essenziali quanto appropriati di Gianluca Sbicca, musiche intriganti scelte da Sandro Saviozzi e, a completamento, le evocanti luci di Luigi Biondi. Massimo Popolizio si riserva la parte di Benito teatrante, non arrogandosi l’unicità del personaggio principale ma sdoppiandolo a mostrare altre facce e la poliedricità del soggetto. Popolizio ne fa un istrione della scena, dalla sciabordante dialettica e infinita energia teatrale domina completamente la parte. In contrapposizione Tommaso Ragno, in linea con l’idea registica, evita un’interpretazione muscolare di M., sviscerando aspetti emotivi, sfumature intime e “deboli”, insospettate. Attorno un’ottima compagnia che si segnala per impegno e omogeneità, galvanizzata da tanta bruciante passione teatrale di Popolizio. Da menzionare Sandra Toffolatti, la Sarfatti, volitiva anima nera e testa pensante di M., struggente in quel finale svuotata di ogni velleità. Paolo Musio da citare soprattutto per il cinico e crudele Balbo, nonché per la dialettica sfaccettata di Pietro Nenni. Raffaele Esposito, convincente e commovente Giacomo Matteotti, Michele Nani, efficacissimo Reporter, Riccardo Bocci velleitario D’Annunzio. Tutti meriterebbero la menzione per l’impegno profuso. La considerazione finale è che sia impossibile non essere “malmenati” dal testo, che sbatte in faccia le responsabilità personali di ogni singolo, in qualsiasi contesto storico si trovi a vivere. Sensazione provata l’altra sera al Piccolo Teatro Strehler, quando al termine del primo atto era palpabile il senso di perplessità, per non dire di sbigottimento; elaborazione compiuta poi nel secondo atto e sfociata nell’esplosione d’applausi al calar di sipario: catartica liberazione finale. Recita del 5 febbraio. Piccolo Teatro Strehler di Milano.

gF. Previtali Rosti

Foto di Masiar Pasquali

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