BERLINO, 16 FEB – Ritorna al Festival Internazionale del Cinema di Berlino, uno dei i suoi maggiori abbonati, il regista sudcoreano Hong Sangsoo, con uno dei suoi tipici film loquaci, in cui le persone si impegnano in dialoghi che non portano a niente, come se il regista avesse appena iniziato o terminato arbitrariamente una storia.
“So-seol-gaui yeong-hwa”, qui presentato con il suo titolo internazionale “The Novelist’s Film” non aggiunge nulla alla sua filmografia, che può incantare o irritare lo spettatore. Più che narrativo, il film parla di un famosa romanziera che fa un lungo viaggio per trovare una sua amica libraia la quale è stata esiliata dall’altra parte del Paese.
Questo l’ha portata a viaggiare per centinaia di chilometri, ed è un mistero come gli incontri che farà porteranno alla realizzazione di un film, il cui finale ha quel solito tocco umoristico tipico del regista.
Berlino ha invitato Hong altre sei volte dal 2008 (di cui quattro dal 2017 saltando solo il 2019) e lo ha premiato in tre diverse occasioni, ma è anche ospite fisso di altre feste importanti come Cannes, San Sebastián e Gijón. E il motivo è che il cinema di Hong Sangsoo non si preoccupa affatto della trama, il che può causare un piacere indicibile ascoltare dialoghi incoerenti, apparentemente improvvisati e recitati da attori che si ripetono in ogni lavoro del regista.
La Berlinale 2022, che si chiude oggi senza aver mostrato un film all’altezza delle precedenti edizioni, è stato un festival in dissolvenza con poca presenza del pubblico e la quasi totale assenza di star, compreso quello dell’attrice francese Isabelle Huppert, che ha ricevuto l’Orso alla carriera facendolo da remoto, collegandosi in video.
Va riconosciuto che quest’anno è stato fatto un passo avanti rispetto all’anno scorso, che è stato celebrato in streaming. In realtà questa 72sima Berlinale è stata piuttosto una scommessa contro il virus, vinto grazie a rigide misure sanitarie, come i test giornalieri, la distanza tra i sedili e le file di accesso e la prenotazione dei biglietti on line.
Ma tutto questo non sarebbe passato dall’essere un’esperienza quasi folcloristica, se non fosse stato perché la qualità media dei film, sia quelli del concorso come quelli delle altre sezioni parallele, ognuna con una giuria propria, non ha superato il livello medio. Quasi nessuno dei film in concorso è stato ricevuto con più di timidi applausi e la maggioranza si è dovuta accontentare del silenzio rispettoso.
Forse il merito dei selezionatori, Mariette Rissenbeek e Carlo Chatrian, è stata quella di non aver invitato nessun film degno di fischi, anche se forse quello sarebbe stato il pepe che avrebbe ravvivato il menu di un festival insipido.
I momenti migliori della gara sono stati forniti dalla catalana Carla Simón con il suo inno a una civiltà contadina umiliata e sconfitta dalla modernizzazione, “Alcarrás”, e il francese François Ozon con il suo tributo al suo maestro Rainer Werner Fassbinder in “Peter von Kant”. L’austriaco Ulrich Seidl con il suo nuovo racconto dello squallore umano in “Rimini”, e Il tedesco Andreas Dresen con la sua commedia esilarante sulla più grande aberrazione nella storia della lotta al terrorismo in “Rabiye Kurnaz contro George W. Bush”. Si chiude così un festival senza lode e senza infamia, ma con la consapevolezza che un raggio di sole dopo due anni di pandemia sta cominciando a splendere nella vita di tutti noi.
Antonio M. Castaldo