Don Benedetteo Croce non disprezzava il teatro che anzi frequentava per svago senza nascondere il suo interesse. Tuttavia considerava l’arte teatrale come una Musa destinata a non vincere nessun concorso di bellezza, laddove invece la Poesia poteva e doveva essere incoronata con la palma dell’alto lirismo. Per carità, pensava il filosofo di Montenerodomo e napoletano d’adozione, ben vengano i teatri ad apportare una benefica spinta culturale al pubblico più o meno rozzo, più o meno acculturato. Tuttavia lontanissima dalla sua concezione era l’idea che il teatro potesse pervenire ad una superiore funzione purificatrice, elegiaca, lirica dello spirito. Troppa polvere attaccata a sipari e tendaggi, troppa muffa nei camerini, troppi chiodi e troppa fame, troppi impicci e buche sulla strada del “carrozzone” degli scavalcamontagne, i teatranti girovaghi, insomma troppe problematiche materiali e banali per far assugere lo spirito ad un dimensione umana universale.
Senza dubbio qualche ragione a cautelarsi di fronte alla pretesa del palcoscenico di elevarsi all’eccelso solio della purezza artistica Don Benedetto l’aveva. Tuttavia dimenticava nella sua sottomissione della drammatica alla lirica ad un elemento fondamentale, ossia che la Poesia, con la maiuscola, naque in tempi antichi, arcaici, nel e per il teatro. Tragedia infatti significa “ode del capro espiatorio”, il canto lirico quindi dell’uomo destinato alla sofferenza esistenziale.
Credo che sia questo il presupposto da cui è partito Vincenzo Zingaro nell’intento di dimostrare non solo la teatralità della poesia, un concetto su cui si è comunque molto dibattuto e che dal Dante della Commedia non c’è bisogno di ripetere; bensì il fatto che la stessa teatralizzazione del verso poetico, una sorta di ritorno alle origini, alle funzioni evocative e drammaturgiche della parola e del verso, avviene in maniera del tutto automatica e naturale. E’ un processo di sublimazione del verso nel teatro, come se la parola poetica fosse – e lo è – l’elemento fluido dell’onda sonora e del significato che riempie il contenitore dello spazio scenico.
Non a caso l’ampia antologia lirica che Zingaro propone al Teatro Arcobaleno si intitola Per…versi. Viagggio nella poesia italiana. Infatti non si tratta ovviamente di perversione in senso freudiano, bensì di una ricerca culturale attraverso e per mezzo della poesia dello spunto di partenza tragico di ogni espressione lirica, la traoedie appunto. Così lo spettacolo-concerto di Zingaro, alternato dalle belle voci recitanti e cantanti di Annalena Lombardi e Piero Sarpa, si muove su un piano storico e propone uno spaccato esaustivo anche se esemplificativo della poesia italiana dalle origini fino ai contemporanei Pavese, Pasolini, Luzi, Ada Merini non a fini puramente estetici e\o letterari, ma nella specifica funzione del teatro che si apre come le pagine di un libro o come se il libro si spalancasse come un palcoscenico.
Lo spettatore si trova così a contatto con una dimensione lirica che comporta però una lettura storica e politica, in parole povere drammaturgica, che esula dal concetto del Sublime di matrice crociana.
Croce, come accennavo prima, andava in cerca del Bello in chiave estetica come assoluta espressione dello spirito, ma la poesia di contraltare, pur elevandosi al di sopra delle scorie della vita, ne rimane inquinata, sporcata dall’esistenza disperata e disperante dei poeti che da Cecco Angiolieri a Pasolini esprimono rabbia, disperazione, frustrazione, rivolta. E quando elevano all’empireo la donna ideale, Beatrice, Laura o Silvia, non bisogna credere che i versi di Dante, Petrarca o Leopardi siano da intendersi in chiave sentimentale. Il canto d’amore è simbolico e sottende una simbologia drammatica che, Dante ne è esempio eclatante, ricade sul piano storico nella critica e nella condanna della società umana.
A differenza di quella che oserei definire “cantilena tragica” di Carmelo Bene, che volutamente affida a chi ascolta il compito di costruire l’immaginario evocativo del verso, Vincenzo Zingaro interpreta con rabbia interiore, evitando una certa prosopopea gasmaniana, il sottotesto poetico carico di umanità, di emozioni e sensazioni, che la poesia è capace di trasmettere come un cinematografo dell’anima. Così il perfetto accompagnamento di Giovanni Zappalorto al pianoforte e autore delle musiche, Michele Campo al violino e Irene Maria Caraba al violoncello, trasforma la poetica in quella forma arcaica dell’ode del capro espiatorio. Questo anche grazie al suggestivo disegno luci di Giovanna Venzi.
Non so e sinceramente non credo che la poesia “salverà il mondo” come pronosticato dal programma di sala che riporta l’iniziativa della società Dante alighieri che sponsorizza la serata. Temo sinceramente che la funzione dell’arte non possa essere salvifica. Ma se la poesia e il teatro, come rivendicato dal poeta e drammaturgo Schiller, assolve ad una funzione quantumeno critica in qualità di “ente morale” (moralische Anstalt), essa può senz’altro contribuire a fondare o quantomeno a sperare in qualcosa di meglio rispetto al mondo di oggi.
Enrico Bernard