Corriere dello Spettacolo

Un “Ballo” d’infuocate passioni

Al Teatro alla Scala, recita del 10 maggio 2022

Al Teatro alla Scala è in scena Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, nuovo allestimento firmato da Marco Arturo Marelli, a nove anni di distanza dall’ultima edizione dell’opera. Indubbiamente uno dei titoli verdiani più curiosi: la mescolanza di serio e faceto apre a uno stile innovativo che ha stentato, per lungo tempo, a imporsi. Verdi, come si sa, ebbe molte difficoltà con la censura per Un ballo in maschera; è un miracolo di caparbietà che l’opera sia arrivata in palcoscenico. Preceduta da gravi fermenti politici, svoltisi in Europa, la composizione dell’opera sarà marcata da questi come segno distintivo. Saltato il progetto di Re Lear con il San Carlo di Napoli, il compositore scelse Gustavo III, ou le bal masquè, un dramma d’Eugene Scribe che culmina con l’assassinio del re svedese. I censori, per prevenire l’andata in scena di un lavoro di portata esplosiva, tempestarono Verdi per ogni possibile cambiamento. Il titolo originale, Una Vendetta in domino fu cambiato in Adelia degli Adimari (privo di senso); l’azione fu trasferita dalla Svezia del XVII secolo, in una Firenze del XIV. Degli originali 884 versi, 297 furono alterati; i nomi dei personaggi cambiati e, dulcis in fundo, tolte le maschere dal ballo mascherato! Dopo infinite discussioni fu concesso di ambientare la storia nel XVIII secolo in America ma, Gustavo, Re di Svezia, diventò Riccardo, Conte di Worwick, governatore coloniale di Boston: ossia un semplice Conte si può pugnalare senza paura che il gesto possa essere emulato…Il Conte svedese Ankarstrom diventa Renato e la maga Ulrica cambia addirittura colore della pelle. Infine il titolo: Un ballo in maschera fu accettato quale compromesso di questa tormentata partitura. Il ritardo censorio obbligò a un cambio di palcoscenico; non più Napoli ma il Teatro Apollo di Roma, dove andò in scena il 17 febbraio 1859. Contrariamente alle attese di Verdi, a Un ballo in maschera arrise un entusiastico successo. Non così l’accoglienza dei milanesi tre anni dopo: alla Scala non incontrò il favore del pubblico, causa la mediocrità dei cantanti e per una messinscena, che il Monaldi definisce “oltraggiosa”. Una battuta d’arresto che non ha influito sul cammino dell’opera, destinata ad approdare su tutti i palcoscenici del mondo. Il regista Marco Arturo Marelli (suoi anche scene e costumi) imposta uno spettacolo dalle linee essenziali, capace di trasmettere l’inquietudine profonda, la complessità e l’ambiguità che trapelano dalla musica ancor più che dal libretto. Efficace fuga prospettica iniziale, con soffitti istoriati e pareti grezze dipinte alla Chagall. Pochi oggetti vestono la scena, tra cui un modellino di teatro in miniatura mentre Riccardo posa per un ritratto: ma già lo spettro della morte si aggira, placido ma incombente nel prosieguo, ad accogliere la designata vittima. L’antro di Ulrica è gran sasso, popolato da cornacchie e vivificato da lumini votivi; ben ideato l’orrido campo e d’effetto il Ballo finale. Qualche ingenuità registica non toglie pregnanza alle simbologie presenti in scena, lasciando ampia importanza ai contributi espressivi personali. Perso per via Riccardo Chailly che in origine avrebbe dovuto dirigere l’opera, sul podio è salito Nicola Luisotti. Una direzione la sua, inizialmente lenta e compassata, che si fa subito netta, campita a grandi blocchi sonori, robusta e di vecchio stampo, senza grandi sottigliezze e sfumature senza indugi e palpiti, latitando una vera tensione drammatica o la struggente passione, con qualche scollamento tra buca e palcoscenico. Curato e ricco di sottigliezze il coro inizialmente, poi esser trascinato in un vortice d’inedia, per riprendersi nello struggente Cor sì grande e generoso in chiusa d’opera. Nessuno del cast avvince o trascina in un’opera che basa il suo essere su brucianti sentimenti d’amore e d’amicizia. Il Riccardo di Francesco Meli mostra voce piena, squillante (pur odendosi oscillazioni in alto) la voce “corre”, avvolge l’uditore ma a fronte della spavalderia con cui il tenore mostra di approcciarsi alla parte manca la comprensione della complessità affettiva, che non sa andare oltre il consueto cliché del giovane governatore baldanzoso, che non riesce a penetrare il segreto della parola scenica verdiana. Così nell’aria di sortita – ingresso passionale, ma tutto sui generis – ma ancor più nel duetto d’amore, con una partner appassionata e vibrante negli accenti. Solo nella scena finale della sua morte riesce a riscattarsi quale credibile interprete. Amelia era Sondra Radvanovsky, come nell’edizione del 2013. Sfoggia ancor potente il mezzo vocale, soprattutto nell’ottava alta, dal timbro penetrante e ben proiettato, anche troppo. Sagace nel modulare la voce che cesella e arricchisce di preziose sfumature. Solida e appassionata interprete, sfuma, colorisce la frase, resta l’unica a far vibrare negli spettatori la corda delle passioni e il pubblico la premia con il primo applauso convinto a scena aperta, dopo quelli cordiali e di cortesia che hanno accolto i pezzi chiusi precedenti. A fronte di questo non si comprende l’insistito uso di spingere gli acuti – rinforzandoli al limite dell’urlo – dopo aver mostrato la padronanza di attaccarli piano.   Nel secondo atto, momento d’eccellenza della partitura, raggiunge il climax emotivo nel duetto d’amore con Riccardo, uno dei punti più alti di tutta la letteratura operistica, riuscendo a trascinare il partner. Con Renato Luca Salsi fa valere la sua professionalità, ma il personaggio non è nelle sue corte, restandogli un po’ estraneo: il suo detto riesce sempre poco efficace interpretativamente, di scarse sfumature, in uno dei ruoli che Verdi ha così generosamente servito. Più convincente nella forza terribile di Eri tu che macchiavi, nell’esprimere la tristezza e il suo stupore amaro per il tradimento dell’amico. Ulrica dal timbro brunito, scurito ulteriormente con insistito uso di suoni poitrinè, quello di Yulia Matochkina, un mezzosoprano-contralto che sembra possedere due distinte voci, pur amalgamate fra loro. Teatrale presenza scenica, ma incapace di regalarci un’interpretazione che andasse di là dalla genericità: gusto d’antan nel fraseggio, colorito da accenti plateali a ripetere un cliché della maga duro a morire (con tanto di delirium tremens). Federica Guida è un Oscar pungente e penetrante, frivolo nel tratteggiare rende la giovanile baldanza del paggio. In Volta la terrea sfoggia acuti limpidi e squillanti. Tom di Jongmin Park e Samuel di Sorin Colibran dai sontuosi e ricchi timbri. Pessimo Silvano dalla voce ingolata di Liviu Holender; elegante, pur nel breve impegno, il servo d’Amelia di Paride Cataldo, puntuale il Giudice di Costantino Finucci.

gF. Previtali Rosti

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