Il 21 giugno 2022 al Teatro alla Scala di Milano
Il Teatro alla Scala ha messo in scena LA GIOCONDA, in questo scorcio finale di stagione; mancava dai suoi cartelloni dal 1997. Titolo una volta popolarissimo, oggi questo “melo drammone” a forte tinte viene riguardato con ingiusta sufficienza. Opera prediletta da primedonne dalla spiccata personalità interpretativa (basti ricordare nel secolo passato la Burzio, l’Arangi Lombardi, Gina Cigna e Maria Callas, Tebaldi e Leyla Gençer), offre anche al baritono momenti di primo piano, cui si associano volentieri grandi tenori, bassi e mezzosoprani. La Gioconda di Amilcare Ponchielli nacque proprio sul palcoscenico della Scala nel 1876, assurgendo a popolarità assoluta e incontrastata dopo la trionfale ripresa scaligera del 1880, sempre diretta da Franco Faccio. Da allora colse le sue fortune in mezzo mondo: dal Cile alla Russia, dalla Spagna all’Inghilterra – dove apparve nel 1883, al Covent Garden – dalla Germania all’America del Sud, per estendersi poi al Metropolitan dove s’inserì stabilmente fra le opere di repertorio: fu scelta per ben quattro volte quale opera inaugurale. Barnaba, spia del Consiglio dei Dieci della Venezia dogale del XVII secolo, per far sua la cantatrice Gioconda, ordisce una fitta rete d’intrighi, tra i quali quello di accusare di stregoneria la madre della donna di cui si è perdutamente invaghito. Laura, moglie del potente Alvise Badoero la salva; gesto che le vale la vita, quando Gioconda agevola la sua fuga e quella del suo amante Enzo, fuga scoperta però da Barnaba. Ed è ancora Gioconda, offrendosi al malvagio persecutore, che favorirà la dipartita dei due amanti verso terre più ospitali. Barnaba riceverà solo le spoglie esanimi della cantatrice, che si pugnala prima di concedersi. Finale mutato in questa nuova produzione scaligera firmata da Davide Livermore. Un allestimento che fa utilizzo di soliti video e quadri virtuali, con scena strombata e con diversità prospettiche, popolata da simboliche figure che la percorrono in lungo e in largo: pulcinelli quali sgherri di Barnaba, reiterate proiezioni che non lascian mai riposare l’occhio e fumi riversati in scena, angeli da presepe di Capodimonte che calano e si ripresentano nel corso dell’azione: horror vacui nel moltiplicare personaggi in aria e mezz’aria, anche nella danza delle ore. Impera in scena una ricca struttura rotante e gran chiglia di nave per il second’atto: trovarobato di maniera, comprensivo di fuochi artificiali (sempre virtuali), a sminuire i pochi momenti di pregio: la sfumata visione di S. Maria della salute, ad esempio. Il tutto condito in una patina superficiale, che non giunge mai a realizzarsi in intensa atmosfera. La regia non riesce a creare momenti di magica sospensione o misteriosa intimità, con figuranti che vanno e vengono senza riuscire a far colore locale, per tacere della dubbia licenza del finale modificato. Anche i costumi rivelano un eterogeneo affastellamento di stili e colori, con punte di bruttezza per quello indossato da Gioconda al II atto. La direzione di Frédéric Chaslin si rivela da subito senza nerbo e logica precisa: attacchi incerti, stacca tempi di lentezza esasperante che fanno naufragare i recitativi finendo per far perdere al fraseggio dei cantanti incisività, pregnanza e mordente drammatico; si ha l’impressione che nessuno in palcoscenico sia partecipe e convinto di quello che canti. La tensione drammatica svapora e l’azione resta tutta in superficie. Di converso rende il suono orchestrale delle strette e dei finali, sferragliante e fracassone per simulare la sfrenata gioia iniziale del popolo veneziano. E che dire delle urla introdotte alla “furlana”? In orchestra non si ode mai un vero abbandono, bandite le passioni, tutto è anestetizzatamente raccontato: sembra abbia messo la sordina alle emozioni. Si fatica a credere che Il duetto fra Enzo e Laura sia d’amore, quando l’orecchio – e i sensi- percepisce solo una gradevole melodia! E per soprammercato i timbri di tenore e soprano non si fondono…Scarso brillio orchestrale anche nella celeberrima Danza delle Ore. Il baritono Frontali presta a Barnaba una voce di scarso spessore, timbro spesso arido e asciutto senza gran velluto, delinea un personaggio meschino più che infidamente insinuante, plebeo, un cattivo da due soldi, che si serve di cachinni vocali a meglio tratteggiare la figura. Il fraseggio è monotono, sempre sulla stessa corda e non differenziato (vedi Qua, porgi, taci, vanne…) in cui si fatica a scorgere la potenza e la grandezza del male. Saioa Hernandéz spicca per ricchezza di timbro, ma è una Gioconda generica e superficialmente appassionata: spinge nel fraseggio, senza riuscire mai veramente drammatica e con diverse concessioni ai suoni di petto. Latita nella vera espressività e l’accento non è quasi mai incisivo: Tradita!…Ahimè! Dio! Soccombo… dove lo strazio? Il mio nome è la Vendetta, poco convincente. Nell’aria finale, banco di prova, SUICIDIO da il meglio di se, se non nella vuota intensità di partecipazione del fraseggio che la precede, per lo meno nella linea di canto dell’aria. Imbarazzante in più momenti la Cieca della Chiuri, che abusa di suoni poitrinè e la cui linea di canto è spesso oscillante. Enzo Grimaldo ha il timbro di Stefano La Colla che mostra un tenorismo di maniera, in cui gli acuti, poveri di squillo, suonano aperti e non sono sempre centrati mentre la sua ottava alta suona spessa opaca. L’interprete appassionato è solo di tinta superficiale, incapace di sfumature amorose e vocali: in Cielo e mar trova un’esecuzione lirica, ma non c’è traccia di passione nel suo cantare, vuoi anche per l’esasperata lentezza dei tempi staccati dal direttore. Alvise Badoèro si veste del timbro caldo e sonoro di Schrott, ma abbandona quasi subito l’iniziale linea di canto signorile tendendo sempre più a spingere nel prosieguo della recita; nella scena e aria del III atto, tutta improntata al muscolarismo vocale, non rende la nobiltà dell’onor ferito del patrizio veneto. Laura aveva il bel personale di Daniela Barcellona, ma non si può dire altrettanto dell’interprete: pressoché inerte nelle passioni e di poche finezze nel canto, un duetto d’amore, che non suscita un fremito e neppure applausi. Lo stesso vale per il duetto con Gioconda, che dovrebbe essere al calor bianco, con attacchi delle frasi a mostrare il piglio e la lotta amorosa per l’amato: entrambe le cantanti non lo possiedono, risultandone un canto a chi spinge e forza di più. Zuàne di Fabrizio Beggi diventa allora un gigante vocale per intensità vocale e credibilità scenica. Corretti gli altri comprimari. Uno sprazzo di luce e di passione teatrale vien dalla freschezza della partecipazione degli allievi della Scuola di ballo dell’Accademia, soprattutto nel solista maschile di belle future speranze (di cui non è dato sapere il nome). Bene il coro, specialmente nei difficili momenti in cui è chiamato ad agire spalle voltate al direttore. Calorosa accoglienza finale per la Hernandéz, cordiale per il resto del cast.
gF. Previtali Rosti