La Valtiberina, in Toscana, una piccola regione al confine con Umbria, Marche ed Emilia-Romagna, dal 2003 diventa, ogni anno, uno dei centri più importanti della scena teatrale contemporanea mondiale. Già, perché a Sansepolcro, piccolo comune in provincia di Arezzo (un tempo chiamato Borgo Sansepolcro proprio perché nasce appunto come borgo attorno al Monastero che conteneva una delle reliquie del Santo Sepolcro), da ben 19 anni la Compagnia CapoTrave, nel mese di Luglio, organizza il Kilowatt Festival: il nome potrebbe rimandare a qualcosa che ha a che fare con l’elettricità o meglio con l’energia. Ebbene sì, è proprio così: il Festival vuole essere l’espressione dell’energia della scena contemporanea (cito il sottotitolo proprio del Festival) invitando presso i diversi luoghi cittadini, che diventano nuovi palcoscenici, nuove produzioni di compagnie di teatro contemporaneo, danza, musica e arti visive. Quest anno sono stato catapultato anche io in questa bellissima realtà e mi sono letteralmente lasciato travolgere da questa energia che contagia e si impossessa di tutto il piccolo borgo. Una cittadina che – per l’occasione – si veste a festa: è un tripudio di colori, un via-vai di artisti, musicisti e si respira un’aria impregnata di artisticità e creatività culturale. In effetti, il borgo di Sansepolcro non è nuovo a forme di “artisticità”: basti pensare che ha dato i natali ad uno dei più importanti artisti del Rinascimento, Piero Della Francesca; alcune delle sue opere più importanti sono esposte al Museo Civico della città che presenta anche lavori di artisti contemporanei di Piero. E’ presente anche la sua casa natale, un elegante palazzo tardo-medievale, ma purtroppo a causa di alcuni contenzioni in seno alla Fondazione è chiuso. Un vero peccato.
Il mio arrivo a Sansepolcro è quindi carico di aspettative: camminando per le strette viuzze, tipiche dei centri medioevali, mi dirigo verso il Chiostro dell’ex chiesa di Santa Chiara. Il cortile porticato del ‘500 diventa teatro per lo spettacolo La notte di Pippo Delbono. Egli è anche il padrino di questa edizione del Festival, fortemente voluto dai direttori artistici Lucia Franchi e Luca Ricci, sempre in prima linea e presenti a tutti gli spettacoli del Festival, quasi a voler sottolineare l’unione che lega l’organizzazione con la propria creazione e con il pubblico che vi prende parte. Delbono, attore e regista ligure, uno dei padri della scena teatrale contemporanea odierna, propone uno spettacolo andato già in scena nel 2014: la riproposizione al Kilowatt Festival, sullo sfondo di una serata stellata, dà a questo spettacolo un significato ancora più magico. L’opera è tratta da La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltes, interpretato da tanti attori italiani (non ultimo Favino durante una serata di Sanremo). Un autore “difficile” Koltes: una vita turbolenta, un amore per il teatro altalenante e infine la scure dell’AIDS che lo porterà alla morte; di tutto questo è pregna la sua drammaturgia, intensissima. Il monologo che Pippo Delbono porta in scena è una rivisitazione del dramma di Koltes (rappresentato per la prima volta al Festival di Avignone nel 1977), che – potremmo dire – “incontra” Delbono. Accompagnato da intense, decise e allo stesso tempo malinconiche melodie di Piero Corso, l’attore inizia leggendo una lettera che il fratello di Koltes gli ha spedito con l’autorizzazione di poter rappresentare lo spettacolo di Bernard-Marie anche tagliandolo e adattandolo. Pippo Delbono ci riesce benissimo: l’emarginazione e la violenza che ne è (purtroppo) conseguenza sono i fardelli portati e sopportati dal protagonista, un uomo escluso dalla società che cerca però un “posto per la notte”, è alla ricerca di qualcosa e/o di qualcuno per sentirsi, almeno una volta, al sicuro. Delbono via via che va avanti nella lettura del monologo riesce a stregare e a catturare l’attenzione mia e del numerosissimo pubblico che è ancorato alla sua voce ora più forte, ora più roca, ora sommessa. La genialità della riscrittura di Delbono sta nel fatto di aver mescolato, senza generare una sovrapposizione ingarbugliata, due voci: quella di Koltes e la sua, in un corpo a corpo ben studiato e strutturato. Anche la lettera alla madre, che chiude il monologo, risuona quasi un addio come atto di resistenza all’insensatezza del mondo.
A tarda sera, a fine spettacolo, non è finita! La particolarità del Kilowatt infatti è anche il DopoFestival: nei Giardini di Piero della Francesca, di fronte al Museo Civico, da mezzanotte musica dal vivo e commento agli spettacoli del giorno. Una bella trovata che avvicina ancor di più la società civile al Festival ampliando ancor di più la condivisione delle esperienze.
Il mio viaggio tra il teatro contemporaneo ospite nella Valtiberina procede, il giorno seguente, con altri due spettacoli di altrettante due Compagnie che si sono rivelate una piacevole scoperta. Adiacente al Chiostro di Santa Chiara, dove è andato in scena Delbono, vi è l’ex Chiesa che oggi è diventata Auditorium: in realtà conserva ancora tutte le caratteristiche e la forma architettonica del luogo di culto ma cioè rende ancora più magico il suo trasformarsi in un palcoscenico naturale. Qui, nella sala interna dunque, va in scena lo spettacolo Relazioni necessarie della Compagnia Lisi/Milani. Una storia che mi ha colpito molto quella di questa Compagnia: due donne, Nadia Milani e Valentina Lisi, la prima insegnante, la seconda allieva che forti del loro legame artistico venutosi a creare all’interno del corso Animateria del Teatro Gioco di Piacenza hanno deciso di fondare – nel 2020 – una Compagnia che mescola al teatro sperimentale, il teatro di figura. Esperimento molto ma molto riuscito. Relazioni necessarie, infatti, è il frutto di questo lavoro: Valentina Lisi, unica performer in scena, è un’attrice – definirei io – multitasking: un tavolo con sopra un enorme album fotografico pop-up dal quale fuoriescono tante vite, tante storie a cui lei, grazie ad un gioco di gesti e di voce, dà vita, senza fermarsi un attimo. L’attrice manovra con sapienza e maestria queste sagome e forme di carta, cristallizzazione dei diversi personaggi, cambiando continuamente toni, espressioni, intensità vocalica a seconda del personaggio rappresentato. Lo spettacolo narra la storia di Matilda, una ragazza impacciata e timida, che racconta al pubblico la storia della sua tormentata famiglia. Non mi sorprende che lo spettacolo è stato uno tra quelli scelti dai cosiddetti Visionari: sono delle persone comuni che però “masticano” di teatro perché lo vedono spesso e che, scelti dall’organizzazione del Festival, hanno vagliato circa 420 proposte arrivate e ne hanno scelte solo 8 da invitare al Kilowatt. In realtà gli spettacoli scelti sono 9: otto scelti, come detto, dai Visionari e uno dai “Visioyoung”, ovvero i “visionari giovani”, studenti del Liceo della Comunicazione di Sansepolcro. D’altronde se lo spettacolo è stato scelto da appassionati di teatro, come dicevo, un motivo ci deve pur essere e la scelta – a mio avviso – è stata più che azzeccata. Lo spettacolo risulta gradevole, divertente e lascia anche spazi di riflessione: la famiglia perfetta esiste davvero? Siamo la conseguenza dell’impatto che le abitudini dei nostri genitori e della nostra famiglia ha su di noi?
Con questi interrogativi nella testa (la visione di uno spettacolo si sa, deve sempre lasciare dubbi allo spettatore), seguo la carovana di gente per le vie del Borgo: quasi tutti gli spettatori di Relazioni Necessarie sono diretti, come me, a vedere un altro spettacolo; la particolarità che mi ha colpito di questo Festival è la partecipazione attiva e totale della comunità: durante gli spettacoli ci si incontra, si discute, si condividono le proprie idee ma soprattutto quasi tutti vedono tutti gli spettacoli. Una vera e propria full immersion di teatro per gli abitanti del luogo e dei paesi vicini (e non solo). Seguendo la scia di gente e non cercando di non distrarmi troppo, eccoci ad un altro luogo significativo del borgo e del Festival: il Chiostro di San Francesco, chiesa gotica di inizio Trecento. Ad attenderci c’è Melina Martin, artista greco-svizzera, che è già lì sulla scena, che ci guarda mentre ci accomodiamo: sarà Elena di Troia nello spettacolo Opa. La performance è in lingua francese, con sovratitoli in italiano ed inglese. Melina Martin è decisamente straordinaria: il suo racconto di Elena, una donna trofeo ma anche maltrattata e usata per fini tutt’altro che pacifici, si snoda in diversi punti; partendo dall’inizio e mischiando lingua greca con lingua francese (quasi come in un flusso di coscienza), antichità e modernità (come ad esempio l’immagine che dà di Elena seduta sul terrazzo sorseggiando caffè e fumando una sigaretta – non esistenti nella cultura greca del 5000 a.C.), la storia di Elena scorre decisamente bene. Dall’incontro con Paride, al rapimento, al matrimonio (con tanto di cambio abito, ballo tradizionale greco e “discorso di ringraziamento”), Melina Martin decreta però, alla fine dello spettacolo, la “morte di Elena”: la più bella del mondo è in realtà una creazione dell’uomo, un mito che, come tale, non esiste del tutto. L’urlo straziante nel finale mi entra dentro, entra dentro a tutto il pubblico che è stato incantato e rapito per tutto il tempo sorridendo e emozionandosi per la storia di questa donna “mortale”. Davvero una grande prova attoriale: tra l’altro lei stessa è stata insignita di diversi premi, soprattutto in terra natale.
Il terzo ed ultimo giorno a Sansepolcro è ricco di spettacoli: dopo una breve sosta al Duomo cittadino (anch’esso meritevole di una visita), il prossimo spazio teatrale è il Teatro alla Misericordia. Dall’esterno non sembra avere l’aspetto di un “teatro tradizionale” come lo conosciamo. Il sito, infatti, è l’ex Ospedale della Misericordia riconvertito poi in teatro e oggi gestito dalla Compagnia CapoTrave che qui, inoltre, tiene anche corsi di teatro e ospita la stagione teatrale invernale cittadina. Non solo: qui durante l’anno si svolgono circa 19 residenze artistiche (un numero elevato) durante le quali le compagnie di teatro ospitate sperimentano la propria idea di teatro e offrono poi al pubblico il risultato delle loro ricerche. Un luogo che quindi funge sempre da teatro, anche durante l’anno. La sala teatrale vera e propria è stata ricavata al piano superiore. Lo spettacolo, pomeridiano, è Woyzeck! per la regia di Carmelo Alù e interpretato da Marco Quaglia. Il testo – che si ispira all’opera di Buchner – racconta la storia del barbiere Woyzeck appunto che nel 1824, a Lipsia, viene decapitato per aver ucciso la donna con la quale aveva una relazione. Furente di gelosia, le infligge sette coltellate. Una storia vera che l’autore tedesco Buchner decise all’epoca di raccontare (cambiando il nome del protagonista in Franz) e che oggi, a distanza di quasi due secoli Carmelo Alù vuole riportare in scena. A dare volto al tormento di quest uomo prossimo alla decapitazione è Marco Quaglia: ridotto in uno spazio scenico molto piccolo – che rappresenta la piccola cella in cui il barbiere è rinchiuso – Woyzeck ripercorre la sua vita e l’esperienza che lo ha portato ad uccidere Marie. Non è solo però: i suoi ricordi prendono vita e Marco Quaglia ora è Woyzeck, ora è il capitano, ora il dottore, poi la stessa donna amata. Sono tutti i personaggi che egli ha incontrato durante la sua vita e che ora gli rendono conto delle sue azioni, prendendosi gioco di lui. Quaglia, aiutato da un ottimo gioco di luci, studiato appunto per illuminarlo in parte (talvolta solo il corpo e non il viso), fa tutto da solo: fluttua da uno spazio all’altro della scena tanto che sembra quasi di vedere i diversi personaggi laddove l’attore è solo lui. E’ come se le diverse anime si impossessassero di lui e si raccontano al pubblico. Lo spettacolo lascia con un enorme interrogativo: nel lungo monologo, Woyzeck non ci dice quale sia stata l’intenzione che ha animato l’omicidio; egli non ha gli strumenti necessari per comprendere il suo gesto, privato così tanto dalla sofferenze della vita. Resta allo spettatore dare una risposta.
Il tramonto è ormai vicino e un altro spettacolo mi attende: ritorno dove sono stato la sera prima, nell’Auditorium di Santa Chiara. Stavolta mi hanno assegnato un posto sul lato destro della platea: da questa posizione riesco ad ammirare anche le piccole cappelle ai lati della navata centrale (che oggi è diventata palcoscenico) decorate con stucchi ed affreschi cinquecenteschi. Non ci avevo fatto caso la sera precedente e così, nell’attesa, resto ad osservarle per un po’. Lo spettacolo che sta per iniziare è Uno sguardo estraneo, ovvero come la felicità è diventata una pretesa assurda drammaturgia di Linda Dalisi da un’opera di Herta Muller. La felicità è davvero una pretesa assurda, come recita il titolo? Le due attrici in scena, guidate dalla regia di Paolo Costantini (giovanissimo, vincitore del Concorso Registi under 30 della Biennale Teatro), interpretano due donne in conflitto con loro stesse, tra loro stesse e con gli oggetti che le circondano. Sono oggetti quotidiani quelli che troviamo in scena: un’aspirapolvere, una sveglia, una sedia, un comò, un mocho per il pavimento, scarpe e abiti accartocciati gli uni sugli altri. Per diverso tempo le due attrici, come in un gioco di improvvisazione, corrono per la scena, si dimenano, e si “relazionano” con gli oggetti; li spostano, li toccano, li utilizzano e poi ricominciano. Sempre più veloci, sempre più in modo frenetico. E’ il tran-tran della vita quotidiana che ci opprime, è l’abitudine di compiere sempre gli stessi gesti, le stesse consuetudini che piano piano, a poco a poco, ci logora. E allora ecco che le due, quasi come colpite da un attimo di “follia” ricercano la felicità: si lasciano letteralmente andare (una delle due attrici improvvisa anche un assolo di sassofono, mentre l’altra si fa letteralmente coprire l’abito bianco di vernice verde). L’hanno raggiunta la felicità (che si configura più come un “togliere i freni”), ma è effimera, dura poco. Perché di nuovo la sveglia ricomincia a suonare e il comò improvvisamente “sanguina” dai cassetti che si aprono da soli. E’ la nostra esistenza che torna a bussare. Lo spettacolo è quasi tutto movimenti e gesti, poca parola: le due interpreti sono Evelina Rosselli e Rebecca Sisti, due giovanissime attrici che si sono letteralmente “sudate” lo spettacolo. Colpisce ed emoziona pienamente la loro sincerità attoriale. Sono molto brave a “portare a casa” lo spettacolo. Decisamente.
La sera è ormai arrivata e le stelle brillano in cielo: è tempo di andare al Chiostro di Santa Chiara per l’ultimo spettacolo di questa tre giorni a Sansepolcro. Pietre Nere di Babilionia Teatri, compagnia che ho già avuto modo di conoscere e apprezzare in altri Festival. Enrico Castellani e Valeria Raimondi (fondatori e attori principali) hanno ottenuto, per la loro Compagnia, il Leone d’Argento e hanno vinto due volte il Premio Ubu. Un teatro, il loro, che è stato definito da molti punk, pop e….rock. Anche questo spettacolo è espressione di questa personalità artistica che da sempre contraddistingue le loro creazioni (ad esempio una delle musiche che fanno da sottofondo a questo spettacolo, è Gloria di Gianni Togni). Entrati in sala troviamo gli attori già sul palcoscenico: oltre ai già citati Castellani e Raimondi, ci sono anche Francesco Alberici, il piccolo Orlando Castellani e Luca, fonico e attore allo stesso tempo. Sono intenti a lavare il palcoscenico: già da subito capiamo che lo spettacolo ha a che fare con la casa, o meglio con il concetto di casa. “Facendo le pulizie” – racconta Castellani all’inizio dello spettacolo – “si ha la possibilità di socializzare con i vicini di casa.” E dall’intimità della casa (rappresentata appunto dalla “faccende domestiche”) tante case trovano modo di raccontarsi. C’è chi la interpreta come posto sicuro, chi come semplice dormitorio, chi addirittura si domanda “perché abbiamo bisogno di una sola casa? Mi piacerebbe avere un armadio pieno di case”. Molto ben riuscito l’uso delle musiche e le soluzioni sceniche adottate, come il divano gonfiabile gigante, simbolo del focolare domestico, e i pacchi che cadono dall’alto introducendo il tema del “trasloco”. Esilarante il duetto tra Enrico Castellani e Valeria Raimondi quando, durante la rappresentazione del quadro sulla “casa natale” di Gesù elencano in rapida successione tutte le case possibili in un gioco di parole che diverte gli spettatori. Il cast risulta all’altezza di questa messa in scena alternativa, dissacrante, particolare, ma che ottiene l’effetto sperato: anche stavolta Babilonia Teatri non si smentisce.
Il mio viaggio si conclude qui e anche stavolta ritorno arricchito. Lascio solo uno spazio per una piccola riflessione, spontanea. I Festival (che siano prettamente teatrali o artistici, in generale) hanno un enorme pregio ma anche una grande responsabilità: ravvivare le piccole realtà portandole al centro del mondo (o parte di esso). E’ un lavoro complesso, difficile: vagliare proposte, selezionare spettacoli, invitare artisti, e avviare tutta la “macchina organizzativa” dell’ospitalità, degli sponsor. Un lavoro notevole. Il Kilowatt Festival, insieme a tanti altri eventi italiani (penso all’ Orizzonti Festival di Chiusi, al Santarcangelo Festival, al Festival di Pergine Valsugana, al Festival Due Mondi di Spoleto e tanti altri), dovrebbero essere conosciuti e apprezzati ancora di più: perché è questo il modo più incisivo per fare cultura e valorizzare il nostro Paese; diventare il centro di gravità permanente, come direbbe Battiato, a cui tutti guardano e di cui tutti vorrebbero far parte.
Se siete curiosi di entrare anche voi in questa “energia”, il Kilowatt Festival continua dal 20 al 24 Luglio a Cortona (Arezzo).
Francesco Pace