Teatro Donizetti di Bergamo, recita del 18 novembre 2022
Con La Favorite si è inaugurato il Donizetti Opera 2022, eseguita secondo il testo originale francese nella sua integralità, comprensiva delle musiche per il balletto composte per la prima parigina omesse nell’edizione andata in scena in Gaetano Donizetti Musica Festival del 2008. Anche in questa edizione si è utilizzata l’edizione critica curata da Rebecca Harris-Warrick, tra le prime collaborazioni di Casa Ricordi e Fondazione Donizetti. Opera in quattro atti di Alphonse Royer, Gustave Vaëz ed Eugène Scribe, capolavoro della maturità del compositore bergamasco, La Favorite ebbe la sua prima il 2 dicembre 1840, con un cast ragguardevole: il mezzo-soprano Rosine Stoltz, il baritono Paul Barroilhet, il celebre tenore Duprez e il grande basso Levasseur. Basato su un dramma francese Le Comte de Commingues di Baculard d’Arnaud, Donizetti scrisse originariamente l’opera per il Théâtre de la Renaissance con il titolo L’Ange de Nisida. Per varie ragioni il progetto fu abbandonato e il lavoro adattato per l’Opéra con l’aiuto dell’onnipresente Scribe. Si doveva però sottostare alle esigenze imprescindibili del Théâtre de l’Opéra: l’opera si allargò da tre a quattro atti, con l’aggiunta del balletto nel secondo. Il tema de La Favorite, molto popolare nel 18° secolo, è quello di una cortigiana dal cuore d’oro; e il pensiero vola spontaneamente a Traviata. Le similitudini sono evidenti: in entrambi i melodrammi c’è un giovanotto d’immacolata reputazione che ama una donna dal passato “discutibile”; questa lo ricambia ma sente forte il dovere di lasciarlo nel momento in cui l’unione possa danneggiarlo. Il parallelo tra le due opere diventa ancora meno casuale quando si apprende della curiosa coincidenza che Dumas fils, nel suo dramma La Dame aux camelias, confronta il comportamento di Marguerite Gautier a quello della Leonora donizettiana. Nella famosa scena del ballo Armand, furioso per il capriccioso comportamento dell’amata, appreso che alcuni ospiti, giunti alla festa sono stati all’Opéra per assistere a La Favorite, esclama (indirizzandosi principalmente a lei): “la storia di una donna che inganna il suo amante”! L’ambientazione si situa in Spagna verso il 1340, durante il regno di Alfonso IX re di Castiglia, soprannominato “ il vendicatore”. Il suo regno vide la respinta dell’ultima, formidabile, invasione africana dei mori; ma il re si ricorda anche per aver “trascurato” sua moglie, Maria del Portogallo, e per la relazione con la bella Leonora di Guzman, che gli portò tanti figli. L’opera donizettiana, uno dei titoli più amati a Parigi, fu rappresentata fino all’inizio del XX secolo, trovando nella successiva traduzione italiana rinnovata fortuna e notorietà. In questo Grand opera – termine sfoggiato più per le ricche danze obbligatorie nel Teatro parigino, che per il melodramma intriso di passioni- la vicenda storica e politica fa da sfondo ai tormenti e passioni che travolgono i personaggi principali. Nella Favorite si trovano a coesistere diverse implicazioni narrative connesse al tema della vicenda: la religiosità in primis, laddove l’opera inizia e termina nel convento di Santiago de Compostela, luogo quant’altri mai emblematico per ogni cristiano (qui immaginando una congregazione sacerdotale che monastica, più vicina ai nostri tempi) salvo mantenere la ridondanza simbolica della Macarena; inoltre l’impossibilità per Léonor di vivere liberamente il proprio amore: e allora presenza scenica incombente, sempre e ovunque, di altissime sbarre carcerarie. Nuovo l’allestimento della Fondazione Teatro Donizetti, in coproduzione con l’Opéra National de Bordeaux, che ha visto nei panni della protagonista, Léonor de Guzman, Annalisa Stroppa. Piacevole nel caldo timbro mezzosopranile, voce ben proiettata, scintillante e sonora nell’ottava superiore, sicuri gli acuti, difetta purtroppo nei gravi, inconsistenti e che faticano a udirsi, tendendo artificiosamente a ingrossarli. Ben in parte, è sempre convincente e passionale in ogni accento, credibilissima attrice. In Quand j’ai quittè trova accenti toccanti, porge un O mon Fernand sussurrato, d’indicibile struggimento, smorzando trova accenti accorati, travolgendo gli ascoltatori con una cabaletta elettrizzante, dal veemente fraseggio. Nella romanza finale Fernand! Imite la clémence, costellata di finezze, raggiunge pure vette di pathos; il suo Pitiè, incalzante, sfocia in bella gara interpretativa con Fernand di Javier Camarena. Voce calda di tenore contraltino, sempre appassionato e interprete veemente, entra subito nel personaggio e lo sviluppa in crescendo. Così dall’ingresso di Un ange, une femme in cui si avverte qualche nota nasaleggiante e pur con un’emissione non sempre levigata, risulta efficacemente teatrale e bruciante. Lo stesso per La Maitresse du Roi? In cui mostra di essere letteralmente atterrito. Nel successivo concertato O ciel!…De son ame – una delle meraviglie di cui Donizetti ha disseminato in partitura – il tenore messicano da prova di un fraseggio al calor bianco, screziato d’accenti lancinanti e nostalgici al ricordo. A volte, per troppa partecipazione al momento vissuto dal “suo” Fernand, intacca la purezza della linea di canto, per dar ancor più risalto all’efficacia del vissuto teatrale. Nel duetto finale, cedendo alfine ai pietosi e accorati accenti di Léonor, assurge al culmine d’intensità espressiva. Curata dizione e miglior accento francese del cast. Alphonse XI era Florian Sempey dal ricco e omogeneo timbro baritonale; inizialmente la voce non si espande e “non corre” in sala, ma nel prosieguo della serata andrà in progressione. Disegna bene la fiera supponenza del monarca e dispiegare, in Léonor! Viens, j’abandonne la bruciante passione dell’innamorato. Costella il canto di smorzandi – pur con qualche sbiancatura – mostrando un articolato fraseggio. Un’interpretazione più di “testa” che teatralmente vissuta, partecipazione che acquisirà con l’esperienza, Coinvolgente nel duetto con Léonor del II atto e fulminante nel concertato che lo chiude, pur tendendo a spingere sui suoni sulle frasi più drammatiche, più che sull’accento, a simulare l’imperativo del comando. Infine in Pour tant d’amour, all’inizio dell’Atto III, trova sottigliezze d’espressione intimamente partecipate. Balthazar è Evgeny Stavinsky, voce dal timbro scuro e omogeneo, possente volume, ma grezzo nella resa e dagli acuti opachi; senza sfumature di canto e nobiltà di fraseggio, che alla lunga lo rendono monocorde. Vocalmente flebile l’Ines di Caterina Di Tonno; il Don Gaspar Edoardo Milletti mostra timbro piacevole, la voce ma dalla cattiva dizione francese. Insufficiente Un Seigneur di Alessandro Barbaglia. Sul podio Roberto Frizza, appassionato conoscitore di questo repertorio, in una direzione sanguigna, trova i momenti migliori nei pezzi squisitamente sinfonici (ouverture e ballabili), e nell’accompagnamento melodico di cui fa rifulgere la bellezza estatica. Non sempre impeccabile la resa dell’Orchestra Donizetti Opera. Bravo il Coro Donizetti Opera e Accademia Teatro alla Scala, istruito da Salvo Sgrò, fascinoso, in quelle pagine intimamente spirituali del IV atto. Meno convincente lo spettacolo ideato dalla regista Valentina Carrasco, scena di Carles Berga e Peter van Praes, costumi di Silvia Aymoino, di modesta significanza scenica nelle commistioni di pseudo altari&talami nuziali e simboli religiosi, Madonna della Macarena, letti a castello e grate di ferro altissime, sempre chiuse, a violentemente pesare sulla percezione visiva della scena. Facendo di necessità virtù, le danze eseguite nella loro integralità sono state rese con la pantomima di svaporate ex favorite di Alphonse XI, in un flash back onirico da cui il sovrano spagnolo ne esce fagocitato e ridicolizzato. I movimenti che vorrebbero essere innovativi non si discostano da una quieta convenzionalità che, se non altro, lascia agio ai cantanti di pensare al canto. Festosa accoglienza finale, con ovazioni per la protagonista Annalisa Stroppa, per Camarena, Sempey e Frizza.
gF. Previtali Rosti