Corriere dello Spettacolo

Strepitoso Lavia: “Il sogno di un uomo ridicolo”

Al Piccolo Teatro Strehler di Milano. In scena fino al 4 dicembre 2022. Recita del 29 novembre

Cavallo di battaglia che ha punteggiato la sua carriera teatrale, Gabriele Lavia torna a misurarsi con Il sogno di un uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij, (traduzione e adattamento Gabriele Lavia), dopo l’ultima edizione vista a Milano, al Teatro Carcano, nella stagione 1994/95. Un testo questo tra più inquietanti dello scrittore russo, che ha significativamente messo al centro della sua produzione letteraria il mistero dell’essere umano: “Questo mistero bisogna cercar di intendere, e anche se vi starai occupato tutta la vita non dire che hai perduto tempo…” L’uomo “ridicolo” è l’esemplificazione di un essere emarginato che vive un perenne stato d’indifferenza e odio verso gli altri, nella più nera solitudine. E lo accetta con uno sconcertante senso di fatalità e sottomissione rassegnato a un vivere continuamente in uno stato di esaltazione e sofferenza. Ma ha scoperto il segreto della felicità e della bellezza: quello di amare gli altri come se stessi. E tenta, pur sapendo della fallibilità del predicato, che questa via che lui vuole “insegnare” agli uomini, possa riuscire vittoriosa. Dostoevskij, con acutezza e sensibilità da microscopio, offre un’impietosa rappresentazione dell’umanità, indicando nell’individualità sfrenata dell’individuo il male della separazione che impera tra gli umani, trasformando la Terra in luogo infernale e violento. Descrivendo i mali che caratterizzano l’uomo del suo tempo, usa la rappresentazione letteraria per rendere evidente come il genere umano, di ogni epoca, porti in se la tara d’immoralità, egoismo e meschinità, presuntuosamente supponendo di essere al centro dell’universo. Il sogno di un uomo ridicolo è un monologo, una particolare forma di teatro di un equilibrio delicatissimo tra attore e pubblico, esaltato da sottigliezze e particolarità che sono la quintessenza del mistero e della fascinazione teatrale. Mistero che non si può sviscerare, solo esserne irretiti. La soglia degli ottant’anni sembra sia per Gabriele Lavia un mero dato anagrafico, concedendosi ancora a uno degli spettacoli, a suo stesso dire, tra più defatiganti affrontati e che non avrebbe più pensato di riprendere. Negli ininterrotti ottanta minuti del racconto, non scritto per il teatro, Lavia si consuma in rotolii e piegamenti, sul letto di polvere e terra brunita stesa sul palcoscenico dello Strehler, fondendosi in una partecipazione totale, di ogni muscolo, in posture disagevoli, complicate da braccia incatenate nella camicia di forza. Ci appare un uomo ridicolo che l’età ha prosciugato, asciutto e scarno, privo di ogni facile somiglianza umana, un simbolo ancor più aderente in quel volto scarnito e scavato, dalle occhiaie spettrali. Questo è ancora poco paragonato all’impegno di energie profuse che la recitazione comporta. Spettacolare nell’uso della voce – la sola in scena oltre al sosia di Lorenzo Terenzi – nell’ininterrotto profluvio recitativo unito a un phisique du role ancor più aderente e iconico nella rattrappita vecchiaia, delinea un personaggio senza età, anche se viepiù ci s’inoltra nella narrazione, scordiamo il corpo, per percepire sempre più intensi le grida del suo animo. I toccanti trapassi nei vari stati emozionali, l’acme della palpabile indifferenza verso tutto e tutti, generano malessere anche in noi: L’impatto con la bambina, di tragica struggente intensità nei repentini cambi di colore di voce; pause calibrate e pesate a pesare sulle nostre coscienze. In un ritmo incalzante, straziante che non lascia tregua allo spettatore, fascinato e travolto, costretto (anche) suo malgrado a seguirlo nel viaggio che sta compiendo, in un’analisi minuziosa e profonda dei comportamenti e dei sentimenti umani per il ritorno, anche sul nuovo pianeta, alla condizione primiera di “uomo ridicolo”: perché lui sapeva la verità e quindi, nuovamente da rinchiudere. Dettagli e sfumature infinite della parola, di un descrittivismo partecipato al calor bianco, che non può lasciare nessuno indifferente nessun animo che ascolti. Allucinata e impotente la recitazione di Lavia da voce alla solitudine dell’uomo, in toni e considerazioni laceranti e sconvolgenti, riprovando amore per la Terra, da cui si è allontanato “povera, violenta e…cara”. Un testo che parla alla nostra epoca ancor più che ad altre precedenti, minata com’è dalla una strisciante e sempre più percepibile solitudine digitale, da eterna connessione. Palpabile la tensione creata in palcoscenico, che inchioda il fascinato spettatore in un’unisona adesione con l’attore.  Sogno che è un eterno annuncio di verità, drammatico. Alla fine si torna sempre alla Croce: “Possiamo amare solo attraverso la sofferenza, io bramo la sofferenza per amare”. Regia efficacissima dello stesso Lavia; perfettamente vestenti lo spettacolo, le musiche curate da Riccardo Benassi, luci radenti e fascinose di Giuseppe Filipponio.Standing ovation finale per Gabriele Lavia – puro argento vivo – saltellante di gioia. Non pago si lascia da parte per richiamare l’attenzione su Ferruccio Soleri, il grande “Arlecchino”presente in sala, sollecitando il pubblico a festeggiarlo. Serata memorabile.

gF. Previtali Rosti

 

Foto Filippo Manzini
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